La
morte è un tema sempre noto, che ci pone sempre un perché e la domanda : «Che
senso ha? » – interrogativi di cui nemmeno la scienza non ha e forse mai
riuscirà ad ottenere una risposta a questo fenomeno, che in realtà non è un
mistero vero e proprio, poiché vi è una risposta che vive in noi sul senso
della sua esistenza; infatti in noi esiste la conoscenza che nulla nasce e
accade senza una motivazione; l'accadere della « maligna » morte ha
degli obiettivi specifici (come del resto anche qualsiasi altro evento ha degli
obiettivi specifici). Da una parte la morte è un processo che avviene nell’atto
in cui a mio avviso dobbiamo assumere una nuova vita, per lasciare spazio a
altri, che scoprono l'autenticità della persona che non c'è più il quale a sua
volta scopre il senso, le ragioni del suo precedente vissuto, in cui gli viene
svelata la realtà di alcuni aspetti della propria vita, dove vede che molte
cose non erano come gli apparivano al suo cospetto. La morte quindi è una
rivelazione o meglio un tempo e un’ora di chiarimenti o una resa dei conti.
La
morte rivela il senso della vita, in cui tante volte abbiamo sofferto; ogni
motivo per cui abbiamo vissuto determinati momenti o istanti e incontri di vita
che abbiamo qui attraversato, che ci hanno provocato delle sofferenze, senza mai
comprenderne il perché. La morte è il
compimento di un percorso in cui la persona ha dato e ha ricevuto, come se egli
fosse stato in questa vita un esperto educativo o filosofico da un lato e
dall’altro un allievo e uno studente e in cui chi rimane raccoglie quello che
gli è stato dato, là dove è stato e continua ad essere un allievo e uno
studente in alcuni momenti e un educatore e filosofo in altri.
Ciò
accade anche quando finisce una storia d'amore, dove non sempre ci accorgiamo
di questo, perché siamo distratti dalla sofferenza, ma quando una persona se ne
va in noi esce fuori quello che ci ha lasciato : viene fuori il risultato
della nostra formazione della personalità. La personalità si forma anche
attraverso le relazioni interpersonali che noi viviamo e si rivela solo dopo
che quella relazione finisce, inconsapevolmente. Il filosofo S. Kierkegaard ha
elaborato la distinzione tra uomo etico – morale (chi sceglie la vita matrimononiale,
la fedeltà, la famiglia) e il don Giovanni (l’uomo che decide di non fare
famiglia, ma di vivere avventure); tale distinzione raffigura due stadi che
ogni singolo essere umano attraversa nel suo percorso. L’uomo in un primo
momento è un don Giovanni che dopo tante avventure arriva al punto di rendersi
conto di non aver creato nulla e di aver vissuto una vita priva di senso; ma in
realtà egli non è un fallito, ma si trova solamente di fronte a un evento: la
morte di uno stadio. Non è vero che non gli ha dato nulla, è solo l’uomo che lo
pensa. Sono le relazioni che ha vissuto che portano l’uomo a far raggiungere
una morte che lascia spazio a una nascita, infatti il don Giovanni lo può
proiettare verso una vita etica – morale. Dietro a ciò c’è sempre una storia
vissuta prima che ci trasforma, che ci cambia, di un cambiamento che si rivela
solo dopo; di fatto, solo con il tempo svegliamo l’autenticità delle persone
che abbiamo incontrato e vissuto; le stesse che ci hanno deluso, amareggiato, e
che abbiamo amato e odiato e viceversa; che ci hanno fatto provare delle
sensazioni o sentimenti belli o brutti che siano, che solo dopo si svelano come
non reali, poiché col tempo scopriamo la compressione dell’incomprensione,
raggiungendo un traguardo di gloria e viceversa; una riflessione questa, non
solo personale, ma che ci viene data da un testo di una canzone particolare e
speciale : “L’arcobaleno” di Adriano Celentano, scritta da Mogol su musica
di Gianni Bella.
Un
brano molto struggente e malinconico, che ascoltato attentamente sembra nascondere
al suo interno la mano di Lucio Battisti; un inno all’amicizia, a un’amicizia di
due persone che per anni non si sono parlati, ma che hanno sempre continuato a
volersi bene, che testimonia una parte di sofferenza, come se chi ha scritto
tale testo abbia provato un dolore per il distacco dell’amicizia morta nella
propria ideologia, ma mai nel cuore. In effetti, in realtà, come è stato
raccontato, il testo racchiude un profondo messaggio arrivato al poeta Mogol
proprio da Lucio Battisti attraverso un sogno nel quale sembra che Battisti
indicasse come l'arcobaleno sia il ponte tra noi e l'aldilà.
In
un panorama in cui la segretaria di Mogol ricevette una telefonata da parte di
una medium, contattata da Battisti, che gli aveva indicato una Libreria e un
libro collocato proprio nella posizione indicata da Lucio; solo a tempo debito
la donna avrebbe potuto aprirlo e leggerne il contenuto. Poche ore più tardi la
voce di Battisti domandò di leggere un capitolo in particolare e di informare
Mogol di certe frasi che dovevano servire per scrivere una canzone che avrebbe
dovuto intitolarsi appunto "L'arcobaleno", il quale contiene un
saluto affettuoso all’amico Mogol, la cancellazione di qualcosa di brutto (un
litigio), l’impossibilità di non aver avuto tempo di salutare o di fare qualcosa
che voleva fare, (il tempo della vita: un viaggio breve); le valige pesanti,
come se fossero il contenuto di quello che si è portato via, bei ricordi, le
soddisfazioni, gli affetti avuti, pesanti però, magari attimi perduti e che non
torneranno mai più, ma si vive comunque nella serenità. Il testo parla delle
cose che non aveva capito e che ora sono chiare; la comprensione che forse prima
non aveva avuto. E infine il luogo in cui vive, sempre in questa esistenza, nel
tramonto della sera, con gli uccelli, in mezzo alle foglie di aprile, con cui
parla, ossia un mondo in cui regna solo l’amore senza sofferenza. Una canzone
piena d’affetto, in cui dice esplicitamente all’amico che gli vuole bene, in un
modo come se non avesse mai smesso di provare questo per lui, e forse dietro di
sé c’è un rammarico di non averglielo mai detto.
Un
testo che testimonia che l’amore è una grande forza vitale; una forza che che
non ci distacca da ciò che per noi vale, dall’amicizia e dalla musica nel caso
di Battisti; un testo che ci dice che nulla ci separa dalle persone care, che
qui nasciamo, moriamo e rinasciamo per la nostra gloria e delle persone che
abbiamo vissuto. Un testo che ci insegna che non dobbiamo mai perdere un solo
attimo di vita. Un testo che racconta che c’è una separazione tra noi e chi è
andato, ma non è lontana, non possiamo abbracciarci, però chi va resta qui,
cammina, appoggia le sua membra su questa terra come se fosse una leggera piuma
che cade a terra; ci accarezza e ci parla solo attraverso uno specchio che
impedisce di ascoltare, ma è una pura bugia, siamo noi che ci rifiutiamo di
ascoltare il canto degli uccelli, così come quello di Dio.
È
questa la danza, l’amore o la sindrome degli antenati, come ci direbbe Anne
Ancelin Schützenberger, in cui ci vede non solo eredi di valori etici morali ma
anche degli eventi vissuti, di emozioni, soprattutto quelle che non hanno
provocato soddisfazione o che avevano voluto realizzare. Emozioni che si
ripetono nelle vite del nostro successivo albero genealogico; così un evento
accaduto, un desiderio posseduto da un nostro bisnonno per esempio, può
capitare che lo ritroviamo nella nostra vita. E’ amore questo, lo stesso che
nessuno, nemmeno una morte, ci può separare da questa vita e dalle persone che
amiamo, come del resto dai sogni che non abbiamo soddisfatto. È il questo il senso,
la ragione della morte a mio giudizio.
Giuseppe Sanfilippo
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