REGIA:
PUPI AVATI
INTERPRETI:
LINO CAPOLICCHIO, FRANCESCA MARCIANO, GIANNI CAVINA, BOB TONELLI, GIULIO
PIZZIRANI
EDIZIONE
DVD: SI’, distribuito da 20TH CENTURY FOX
“…I
MIEI COLORI…” (dal film)
Stefano (Capolicchio), restauratore, arriva
in un paesino della campagna ferrarese per curare un affresco raffigurante il
martirio di San Sebastiano, opera realizzata all’interno di una chiesa e
attribuita a tale Buono Legnani, pazzoide artista locale morto suicida una
ventina d’anni prima, soprannominato “pittore delle agonie” per la sua
abitudine di ritrarre dal vivo persone in procinto di morire. Col procedere del
lavoro, Stefano si accorge ben presto che assieme al dipinto sta riportando alla
luce un’inquietante verità fatta di orrori sepolti nel passato…
La prima incursione del regista bolognese nel
thriller/horror (su sceneggiatura del
collaudato quartetto Pupi e Antonio Avati, Gianni Cavina e…Maurizio Costanzo!) costituisce
l’alternativa italiana più riuscita e convincente del decennio allo strapotere
del Maestro Dario Argento, indiscusso dominatore del genere negli anni’70 sulle
orme del grande pioniere Mario Bava; proprio in quanto traccia una via
alternativa per il “gotico all’italiana”, –potremmo parlare qui di “gotico
padano”- il film acquisisce un ulteriore motivo di interesse per i cultori del
genere (tra i quali chi scrive), cui La
casa dalle finestre che ridono offre la possibilità di apprezzare un valido
approccio “altro” rispetto a quello argentiano, dal quale il regista di Regalo di Natale (film del 1986, a mio giudizio il
miglior Avati, horror esclusi) si
discosta sia dal punto di vista stilistico che tematico: alle spettacolari
acrobazie della camera e al montaggio serrato tipici di Argento, Avati oppone
uno stile decisamente più statico ed un ritmo –a tratti forse perfino troppo-
più compassato; diverso anche l’impiego della violenza, qui molto contenuta,
specie se paragonata a film come Profondo
Rosso; inedita ma suggestiva e spettrale, in luogo delle lugubri città
argentiane (Roma e Torino in particolare) frutto di sapienti collage, l’ambientazione nelle acquose
campagne della Bassa padana, scelta, quanto ad originalità, seconda forse solo
alla Lucania del Non si sevizia un
paperino (1972) di Lucio Fulci, altro giallo/thriller
all’italiana da recuperare. D’accordo, non mancano certi cliché del genere come le telefonate minatorie, la villa sperduta,
i rumori di passi, cigolii, ecc…ma si tratta di ingredienti indispensabili che
rendono il piatto ancor più saporito senza renderlo, per questo, banale. Simile
a quello delle storie nere di Dario Argento è, invece, il clima morboso e allucinato
che il regista riesce a costruire giocando abilmente con le paure collettive e
con l’educazione cattolica tipiche della gente di campagna (di cui, per sua
stessa ammissione, egli stesso è intriso), evocando così quell’atmosfera malata,
irreale, oscura e ambigua che possiamo ritrovare, ad esempio, in alcuni romanzi
e racconti del “Mago del Brivido” Stephen King (mi viene in mente la splendida
storia autoconclusiva I figli del grano,
contenuta nella raccolta A volte
ritornano, oppure l’inquietante Desperation),
in cui l’ignaro protagonista (o, a volte, i protagonisti) finisce nel
“classico” posto sperduto ai margini del mondo, luogo in cui dietro l’iniziale,
apparente “normalità” (odio questo termine, ma tant’è!) rassicurante della
piccola comunità umana locale, si cela una realtà dove ogni logica viene
sovvertita e dove bene e male si confondono senza che si possa più distinguerli,
quasi come se ci si trovasse immersi in un microcosmo stregato e separato dal
resto del Mondo da una barriera invisibile, una parallela dimensione oscura in
cui le forze del Male sembrano aver corrotto tutto e tutti e dove pare che
nessuno, per paura, indifferenza, omertà o complicità possa o voglia cambiare
le cose; il protagonista-eroe si ritrova così completamente solo, e da solo si
fa carico di risolvere la situazione, unica possibilità per uscire dalla “bolla
nera” in cui è rimasto imprigionato e spezzare così la misteriosa maledizione
che grava sul luogo. Lo stesso Stefano è vittima di una vera e propria
“congiura di pazzi” (niente a che vedere con il celebre episodio della storia
fiorentina), dove nulla è ciò che sembra e dove non ci si può fidare di
nessuno: il tranquillo paesello di onesti e laboriosi provinciali ha più che il
solito scheletro –conservato in formalina- nascosto nell’armadio, il Male ha
occhi e orecchie dappertutto e la verità viene sistematicamente sporcata…e poi…chi
ha ripulito la soffitta? Chi ha fatto sparire i corpi? Un lavoro così grande,
compiuto con una perizia quasi scientifica e con tale velocità è forse un po’
troppo per due anziane signore da sole…OOOPS!...
Credo che questo tipo di situazione (o
situazione-tipo), piuttosto ricorrente nell’ambito horror e non solo, rispecchi fedelmente la tradizionale diffidenza
umana, per non dire ostilità, nei confronti dello sconosciuto, dell’estraneo,
del “nuovo” percepito come potenziale elemento perturbante, cioè come minaccia
per l’ordine costituito; un atteggiamento di chiusura che non è certo
appannaggio esclusivo delle comunità rurali, come quella mostrata nel film... a
tal proposito, considero emblematica e perciò meritevole di citazione la magistrale
e toccante scena del pre-finale, della quale la bella colonna sonora di Amedeo
Tommasi sottolinea l’impatto drammatico, in cui Stefano, ferito, fugge in paese
col sidecar alla vana ricerca
d’aiuto, trovando però tutte le porte chiuse, tanto quelle dei privati
cittadini quanto quelle delle istituzioni; intorno a lui si fa il vuoto,
neanche fosse un appestato…l’unico ad offrirgli riparo è il buon Don Orsi, il
parroco della chiesa che ospita l’affresco…sorpresona finale coi fiocchi!!!
Molto buona la prova degli attori, con
menzione particolare per il fido Gianni Cavina –uno degli interpreti prediletti
dal regista- che, malgrado il ruolo secondario, dà comunque la paga agli altri.
Tirando le somme, La casa dalle finestre che ridono è un piccolo film (dal punto di
vista del budget, non certo da quello artistico!) che si è meritatamente
ritagliato un posto tra le opere di culto del genere horror (non solo italiano) ed ha, tra gli altri, il pregio di
essere veramente originale grazie anche ad uno dei finali più imprevedibili e
irriverenti della storia del cinema; l’atipica location e un gruppo di ottimi caratteristi hanno senz’altro
contribuito al successo dell’ambiziosa missione del regista: rendere spaventosa
l’innocua e accogliente campagna romagnola! Davvero imperdibile per gli
appassionati! Peccato solo che in seguito Pupi Avati abbia concentrato i propri
sforzi in altri ambiti cinematografici -commedia in primis- non approfondendo un discorso artistico molto
interessante e tornando “sul luogo del delitto”, finora, solo altre tre volte,
senza peraltro raggiungere il livello de La
casa dalle finestre che ridono: nel 1983 con il buon Zeder (protagonista Gabriele Lavia), nel 1996 con L’arcano incantatore (girato in Umbria,
musiche di Pino Donaggio) e, recentemente, con Il nascondiglio (2007, ambientato negli USA).
L’edizione DVD (ricercatevi quella con la
custodia cartonata!) propone tra gli extra un breve documentario di 15’ circa in cui i protagonisti
rievocano alcune fasi della lavorazione del film, tirando fuori dal cassetto,
come avviene spesso in questi casi, alcuni gustosi aneddoti.
Francesco
Vignaroli
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