25 settembre, 2014

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Recensione 27: "Alexandra"


ALEXANDRA                               RUSSIA  2007  91’  COLORE

REGIA: ALEXANDR SOKUROV

INTERPRETI: GALINA VISHNEVSKAJA, VASILI SHEVTSOV, RAISA GICHEVA

EDIZIONE DVD: SI', distribuito da KOCH MEDIA


Dopo aver ottenuto il lasciapassare necessario Alexandra, anziana vedova russa, prende il treno e va in Caucaso a trovare il nipote Denis, soldato professionista, al campo militare situato in prossimità del fronte russo-ceceno; tra un impegno e l’altro Denis trova il tempo per parlare un po’ con la nonna, che non vedeva da sette anni, e far da Cicerone mostrandole i “segreti” dell’accampamento. In assenza del ragazzo sono i commilitoni a prendersi cura della donna, ormai adottata dall’intera divisione, ma Alexandra, disubbidendo agli ordini, si concede un’uscita solitaria al vicino mercato dove fa amicizia con un’anziana del posto, Malika, proprietaria di una bancarella; felice di poter stare accanto al nipote e già pienamente integrata all’interno del campo, a malincuore Alexandra è costretta a ripartire perché Denis è in procinto di affrontare una missione che lo impegnerà per cinque giorni.

Alexandra, ovvero: “come fare un film contro la guerra senza girare una sola scena di battaglia”.
Avendolo conosciuto grazie ad opere ambiziose e sperimentali come l’incredibile Arca Russa (2002: un immaginario giro storico/turistico dell’Ermitage di San Pietroburgo attraverso un ininterrotto piano-sequenza lungo novanta minuti) o la recente, radicale rilettura del mito di Faust (2011, Leone d’oro a Venezia), si potrebbe rimanere stupiti dal russo Sokurov, uno dei più grandi registi viventi al mondo e da molti considerato l’erede del connazionale Tarkovskij, che in Alexandra torna all’essenzialità intimistica di capolavori come Il Sole (2005, dedicato alla figura dell’imperatore giapponese Hirohito) e, soprattutto, Madre e figlio (1997), del quale Alexandra rappresenta forse l’ideale prosecuzione artistica -dall’ipotetico titolo alternativo “Nonna e nipote”- in ottica radicalmente e puramente realista: se Madre e figlio è un film essenziale dal punto di vista dei contenuti (dialoghi ridotti al minimo, trama pressoché inesistente, lunghe pause di pura contemplazione), non lo è certo da quello tecnico, poiché l’uso di lenti anamorfiche e filtri per deformare le immagini -soluzione riproposta in Faust- di fatto rendono l’opera fortemente sperimentale e straniante; in Alexandra invece il regista decide di proporci la realtà -e qui è proprio il caso di dirlo- senza filtri, senza manipolazioni o mediazioni artistiche di sorta, con un approccio autenticamente neorealista. L’affinità tra i due film risiede invece nella medesima, sommessa rarefazione della sceneggiatura –firmata dallo stesso Sokurov- che fa grande economia di parole e situazioni senza però escludere un accurato scavo psicologico dei personaggi dal quale lasciar affiorare profonde riflessioni esistenziali.

Perché Alexandra, nonostante l’età ed una salute che si intuisce essere non proprio di ferro, decide di affrontare questo faticoso viaggio per andare a trovare Denis in un ambiente che le è totalmente estraneo (ma, per fortuna, non ostile)? Cuore di nonna, nostalghia canaglia, certo, ma c’è dell’altro: “COS’E’ CHE LA PREOCCUPAVA?”, le chiede il comandante della divisione durante un colloquio; molto eloquente la risposta: “FATE LA GUERRA DA TROPPO TEMPO. VI  SIETE ABITUATI. SAPETE DISTRUGGERE, MA QUANDO IMPARERETE A COSTRUIRE?” Alexandra manifesta subito le proprie idee: la sua figura assume simbolicamente il ruolo di voce della coscienza e della ragione, una voce che cerca di penetrare la corazza superficiale che il tempo e la consuetudine hanno posto sui soldati -Denis incluso- , ponendo domande in grado di rimettere in discussione ogni certezza; il suo arrivo al campo porta un po’ di (garbato) scompiglio tra gli uomini perché la sua presenza è l’unica nota di colore che spicca nell’immutabile grigiore del posto, l’unica traccia di un’umanità che i soldati, anche i più giovani, hanno forse dimenticato. Ed è per questo motivo che i militari accolgono subito la bizzarra visitatrice, è per questo che la nonna di Denis –una burbera dal cuore d’oro- diventa immediatamente la nonna di tutti, per questo viene guardata con simpatia e rispetto, per questo, infine, nonostante la sua irriducibile alterità, riesce ad ambientarsi; i soldati trattano Alexandra con gentilezza e riguardo, compreso Sania, che rimane incantato a guardarla cenare (ricambiandole pure un sorriso) anziché andare a prendere l’acqua come richiestogli da un compagno, e compreso il timido e impacciato Andreij, lo sfortunato che le viene assegnato come angelo custode da Denis e che subisce le brusche rimostranze della nonna con divertita sopportazione; persino le guardie le consentono di sostare in zona proibita e, addirittura, di uscire senza permesso, mentre gli ufficiali, dal canto loro, chiudono un occhio…La breve “gita” a piedi al vicino mercato (per comprare sigarette e biscotti ai soldati) permette ad Alexandra di conoscere la coetanea Malika, con la quale stabilisce subito un legame spontaneo che ignora l’inimicizia –ufficiale- tra i rispettivi popoli: la guerra è una tragedia che unisce tutti quanti, nel dolore prima e nel desiderio di ritrovare la pace perduta poi, e la solidarietà umana e l’amicizia sono più forti delle divisioni che l’uomo stesso impone ai propri simili. Durante il ritorno al campo, scortata dal giovane Ilyas su richiesta di Malika, Alexandra ribadisce il suo rifiuto della guerra rispondendo così al ragazzo, che le aveva espresso tutta la propria insofferenza verso l’occupazione russa oltre ad un profondo desiderio di libertà: “OGNI PAZIENZA HA UN LIMITE. UNA VECCHIA GIAPPONESE UNA VOLTA MI HA DETTO QUAL E’ LA PRIMA COSA CHE BISOGNA CHIDERE A DIO. CHIEDI LA FORZA DELLA RAGIONE, MI HA DETTO. LA FORZA NON E’ NELLE ARMI O NELLE MANI DEGLI UOMINI”. La guerra nasce dall’oscuramento della razionalità (la “notte della ragione”), facoltà esclusiva che l’uomo ha il dovere di impiegare come risorsa primaria per dirimere i contrasti, mentre la violenza, che troppo spesso prevale sulla ragione, è espressione della parte “animale”, istintiva, irrazionale del genere umano, un territorio in cui la legge del più forte si sostituisce al dialogo.
Di grande intensità i brevi dialoghi tra Alexandra e Denis, in cui Sokurov riesce ad emozionare senza mai scadere nel patetico o nel banale, perché racconta con sincerità e credibilità i sentimenti delle persone, lasciando affiorare la toccante umanità dei personaggi: nonna e nipote si vogliono molto bene, ma Alexandra teme che la guerra abbia indurito il cuore di Denis, allontanandolo da lei; invece, tra piccoli battibecchi ed incomprensioni, i due si riscoprono più legati che mai, bisognosi entrambi di mitigare la propria solitudine: Alexandra, vedova da un paio d’anni e ormai in là con gli anni, ha paura di morire sola, come confessa tra le lacrime al nipote; Denis invece sente che la lunga permanenza in guerra lo ha cambiato (“MI STO PERDENDO”), costringendolo pure ad un forzato celibato: la sua condizione economica e sociale non gli consente di sposarsi, come invece vorrebbe la nonna.

Alexandra è uno dei film più importanti e atipici di Sokurov, un’opera apparentemente semplice e dimessa che riesce però ad abbracciare temi universali, prerogativa, questa, propria dei capolavori; il regista russo esprime qui il proprio pensiero in punta di piedi, senza mai alzare la voce, facendo affidamento sulla forza dei gesti semplici e delle (poche) parole anziché sull’eloquenza delle immagini; da qui la decisione di violare le convenzioni tipiche del genere privilegiando la staticità e non mostrando mai la guerra, elemento che rimane per tutto il film un’inquietante presenza invisibile seppure incombente e che si manifesta soltanto attraverso le sporadiche raffiche di colpi che si sentono qua e là in sottofondo; il messaggio è affidato alla pacata fermezza della straordinaria Alexandra (figura indimenticabile, ottimamente resa dalla cantante lirica G. Vishnevskaja, che recita con ammirevole asciuttezza e misura), la cui presenza nel campo militare come unico elemento vitale è paragonabile, se è lecito l’accostamento, all’ultimo fiore superstite della fortezza di Winterborn ne La grande illusione (1937) di Jean Renoir, capolavoro senza tempo e storico film-manifesto per il pacifismo, tornato in sala lo scorso Marzo in edizione digitale restaurata nell’ambito della splendida rassegna “Il Cinema Ritrovato”, evento che abbiamo seguito anche noi del CORRIERE.


Francesco Vignaroli

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