ALEXANDRA RUSSIA 2007
91’ COLORE
REGIA:
ALEXANDR SOKUROV
INTERPRETI:
GALINA VISHNEVSKAJA, VASILI SHEVTSOV, RAISA GICHEVA
EDIZIONE
DVD: SI', distribuito da KOCH MEDIA
Dopo aver ottenuto il lasciapassare
necessario Alexandra, anziana vedova russa, prende il treno e va in Caucaso a
trovare il nipote Denis, soldato professionista, al campo militare situato in
prossimità del fronte russo-ceceno; tra un impegno e l’altro Denis trova il
tempo per parlare un po’ con la nonna, che non vedeva da sette anni, e far da
Cicerone mostrandole i “segreti” dell’accampamento. In assenza del ragazzo sono
i commilitoni a prendersi cura della donna, ormai adottata dall’intera
divisione, ma Alexandra, disubbidendo agli ordini, si concede un’uscita
solitaria al vicino mercato dove fa amicizia con un’anziana del posto, Malika,
proprietaria di una bancarella; felice di poter stare accanto al nipote e già
pienamente integrata all’interno del campo, a malincuore Alexandra è costretta
a ripartire perché Denis è in procinto di affrontare una missione che lo
impegnerà per cinque giorni.
Alexandra, ovvero: “come fare
un film contro la guerra senza girare una sola scena di battaglia”.
Avendolo conosciuto grazie ad opere
ambiziose e sperimentali come l’incredibile Arca Russa (2002: un immaginario
giro storico/turistico dell’Ermitage di San Pietroburgo attraverso un
ininterrotto piano-sequenza lungo novanta minuti) o la recente, radicale
rilettura del mito di Faust (2011,
Leone d’oro a Venezia), si potrebbe rimanere stupiti dal russo Sokurov, uno dei
più grandi registi viventi al mondo e da molti considerato l’erede del
connazionale Tarkovskij, che in Alexandra
torna all’essenzialità intimistica di capolavori come Il Sole (2005, dedicato alla figura dell’imperatore giapponese
Hirohito) e, soprattutto, Madre e figlio
(1997), del quale Alexandra rappresenta forse l’ideale prosecuzione artistica
-dall’ipotetico titolo alternativo “Nonna
e nipote”- in ottica radicalmente e puramente realista: se Madre e figlio è un film essenziale dal
punto di vista dei contenuti (dialoghi ridotti al minimo, trama pressoché
inesistente, lunghe pause di pura contemplazione), non lo è certo da quello
tecnico, poiché l’uso di lenti anamorfiche e filtri per deformare le immagini
-soluzione riproposta in Faust- di
fatto rendono l’opera fortemente sperimentale e straniante; in Alexandra invece il regista decide di
proporci la realtà -e qui è proprio il caso di dirlo- senza filtri, senza
manipolazioni o mediazioni artistiche di sorta, con un approccio autenticamente
neorealista. L’affinità tra i due film risiede invece nella medesima, sommessa
rarefazione della sceneggiatura –firmata dallo stesso Sokurov- che fa grande
economia di parole e situazioni senza però escludere un accurato scavo psicologico
dei personaggi dal quale lasciar affiorare profonde riflessioni esistenziali.
Perché Alexandra,
nonostante l’età ed una salute che si intuisce essere non proprio di ferro,
decide di affrontare questo faticoso viaggio per andare a trovare Denis in un
ambiente che le è totalmente estraneo (ma, per fortuna, non ostile)? Cuore di
nonna, nostalghia canaglia, certo, ma
c’è dell’altro: “COS’E’ CHE LA PREOCCUPAVA?”, le chiede il comandante della
divisione durante un colloquio; molto eloquente la risposta: “FATE LA GUERRA DA
TROPPO TEMPO. VI SIETE ABITUATI. SAPETE
DISTRUGGERE, MA QUANDO IMPARERETE A COSTRUIRE?” Alexandra manifesta subito le
proprie idee: la sua figura assume simbolicamente il ruolo di voce della coscienza
e della ragione, una voce che cerca di penetrare la corazza superficiale che il
tempo e la consuetudine hanno posto sui soldati -Denis incluso- , ponendo
domande in grado di rimettere in discussione ogni certezza; il suo arrivo al
campo porta un po’ di (garbato) scompiglio tra gli uomini perché la sua
presenza è l’unica nota di colore che spicca nell’immutabile grigiore del
posto, l’unica traccia di un’umanità che i soldati, anche i più giovani, hanno
forse dimenticato. Ed è per questo motivo che i militari accolgono subito la
bizzarra visitatrice, è per questo che la nonna di Denis –una burbera dal cuore
d’oro- diventa immediatamente la nonna di tutti, per questo viene guardata con
simpatia e rispetto, per questo, infine, nonostante la sua irriducibile
alterità, riesce ad ambientarsi; i soldati trattano Alexandra con gentilezza e
riguardo, compreso Sania, che rimane incantato a guardarla cenare
(ricambiandole pure un sorriso) anziché andare a prendere l’acqua come
richiestogli da un compagno, e compreso il timido e impacciato Andreij, lo sfortunato
che le viene assegnato come angelo custode da Denis e che subisce le brusche
rimostranze della nonna con divertita sopportazione; persino le guardie le
consentono di sostare in zona proibita e, addirittura, di uscire senza
permesso, mentre gli ufficiali, dal canto loro, chiudono un occhio…La breve
“gita” a piedi al vicino mercato (per comprare sigarette e biscotti ai soldati)
permette ad Alexandra di conoscere la coetanea Malika, con la quale stabilisce
subito un legame spontaneo che ignora l’inimicizia –ufficiale- tra i rispettivi
popoli: la guerra è una tragedia che unisce tutti quanti, nel dolore prima e
nel desiderio di ritrovare la pace perduta poi, e la solidarietà umana e
l’amicizia sono più forti delle divisioni che l’uomo stesso impone ai propri
simili. Durante il ritorno al campo, scortata dal giovane Ilyas su richiesta di
Malika, Alexandra ribadisce il suo rifiuto della guerra rispondendo così al
ragazzo, che le aveva espresso tutta la propria insofferenza verso
l’occupazione russa oltre ad un profondo desiderio di libertà: “OGNI PAZIENZA
HA UN LIMITE. UNA VECCHIA GIAPPONESE UNA VOLTA MI HA DETTO QUAL E’ LA PRIMA
COSA CHE BISOGNA CHIDERE A DIO. CHIEDI LA FORZA DELLA RAGIONE, MI HA DETTO. LA
FORZA NON E’ NELLE ARMI O NELLE MANI DEGLI UOMINI”. La guerra nasce
dall’oscuramento della razionalità (la “notte della ragione”), facoltà
esclusiva che l’uomo ha il dovere di impiegare come risorsa primaria per
dirimere i contrasti, mentre la violenza, che troppo spesso prevale sulla
ragione, è espressione della parte “animale”, istintiva, irrazionale del genere
umano, un territorio in cui la legge del più forte si sostituisce al dialogo.
Di grande intensità i
brevi dialoghi tra Alexandra e Denis, in cui Sokurov riesce ad emozionare senza
mai scadere nel patetico o nel banale, perché racconta con sincerità e
credibilità i sentimenti delle persone, lasciando affiorare la toccante umanità
dei personaggi: nonna e nipote si vogliono molto bene, ma Alexandra teme che la guerra abbia indurito il cuore di Denis,
allontanandolo da lei; invece, tra piccoli battibecchi ed incomprensioni, i due
si riscoprono più legati che mai, bisognosi entrambi di mitigare la propria
solitudine: Alexandra, vedova da un paio d’anni e ormai in là con gli anni, ha
paura di morire sola, come confessa tra le lacrime al nipote; Denis invece
sente che la lunga permanenza in guerra lo ha cambiato (“MI STO PERDENDO”),
costringendolo pure ad un forzato celibato: la sua condizione economica e
sociale non gli consente di sposarsi, come invece vorrebbe la nonna.
Alexandra è uno dei film più
importanti e atipici di Sokurov, un’opera apparentemente semplice e dimessa che
riesce però ad abbracciare temi universali, prerogativa, questa, propria dei
capolavori; il regista russo esprime qui il proprio pensiero in punta di piedi,
senza mai alzare la voce, facendo affidamento sulla forza dei gesti semplici e
delle (poche) parole anziché sull’eloquenza delle immagini; da qui la decisione
di violare le convenzioni tipiche del genere privilegiando la staticità e non
mostrando mai la guerra, elemento che rimane per tutto il film un’inquietante
presenza invisibile seppure incombente e che si manifesta soltanto attraverso
le sporadiche raffiche di colpi che si sentono qua e là in sottofondo; il
messaggio è affidato alla pacata fermezza della straordinaria Alexandra (figura
indimenticabile, ottimamente resa dalla cantante lirica G. Vishnevskaja, che
recita con ammirevole asciuttezza e misura), la cui presenza nel campo militare
come unico elemento vitale è paragonabile, se è lecito l’accostamento,
all’ultimo fiore superstite della fortezza di Winterborn ne La grande illusione (1937) di Jean
Renoir, capolavoro senza tempo e storico film-manifesto per il pacifismo,
tornato in sala lo scorso Marzo in edizione digitale restaurata nell’ambito
della splendida rassegna “Il Cinema Ritrovato”, evento che abbiamo seguito
anche noi del CORRIERE.
Francesco
Vignaroli
Nessun commento:
Posta un commento