Castiglione del Lago, Cinema
Teatro Cesare Caporali. Martedì 21 Ottobre 2014
Dopo il successo della prima edizione che, a
partire da Settembre 2013 fino allo scorso Giugno, con cadenza mensile ha
riportato in tutte le sale italiane aderenti dieci classici del cinema
restaurati e rieditati in versione digitale, torna con un nuovo ciclo la
rassegna “IL CINEMA RITROVATO al cinema”, iniziativa promossa dall’instancabile
Cineteca di Bologna in collaborazione con Circuito Cinema; i lettori di Cortona
e dintorni possono assistere a queste proiezioni presso il cinema Cesare Caporali
di Castiglione del Lago (www.cinemacaporali.it).
Per il primo appuntamento, cui farà seguito a
Novembre il mitico Gioventù bruciata
(www.ilcinemaritrovato.it/i-film),
non si poteva davvero chiedere di più: in occasione del trentesimo anniversario
della prematura scomparsa di François Truffaut, uno dei più grandi registi di
tutti i tempi e il principale esponente della cosiddetta Nouvelle Vague francese, i curatori hanno pensato bene di celebrare
la ricorrenza riproponendo, rigorosamente in versione originale con
sottotitoli, I quattrocento colpi
(1959), l’opera prima nonché il risultato più alto (raggiunto a soli 27
anni!!!) della carriera del Maestro; al di là del suo enorme valore artistico,
che lo pone tra i capolavori assoluti della storia del cinema, il film è
importantissimo anche da un punto di vista storico: insieme all’altrettanto
folgorante esordio Fino all’ultimo
respiro di Jean-Luc Godard (su soggetto di Truffaut) dell’anno successivo,
considerato il manifesto del movimento Nouvelle
Vague, ed al celebrato Hiroshima Mon
Amour (sempre del 1959) di Alain
Resnais, riproposto lo scorso Maggio come penultimo appuntamento del primo
ciclo della rassegna, I quattrocento
colpi ha rappresentato il punto
di svolta del cinema francese ed il simbolico ricambio generazionale tra i grandi
registi del passato (Gance, Renoir, Vigo, Carné, Duvivier, Clair, Clouzot,
Bresson…) ed i giovani rampanti formatisi alla scuola critica dei Cahiers du Cinéma e di Arts (ai tre nomi citati aggiungo almeno
quello di Claude Chabrol); si tratta di una di quelle opere epocali che hanno
suddiviso la storia del cinema in un “prima” e in un “dopo”.
Il film è stato preceduto da una breve
introduzione (in video) del celebre critico cinematografico Paolo Mereghetti,
oltre che da un gustoso documento d’epoca, una vera chicca per gli
appassionati: il provino originale dell’allora quattordicenne Jean-Pierre Léaud,
il protagonista del film, che in quei pochi minuti dimostra di trovarsi già
perfettamente a suo agio davanti alla macchina da presa, dando prova di notevole
disinvoltura e anche di simpatica sfrontatezza…un attore nato, qui al suo
debutto, primo atto di una carriera di tutto rispetto che lo porterà a
diventare uno degli interpreti preferiti di Truffaut: è nata una stella!
Il film
Parigi. Rifiutato da una madre e da un
patrigno che non lo amano, osteggiato a scuola da un maestro che non lo
apprezza, il dodicenne inquieto Antoine Doinel esprime tutta la sua insofferenza
ed il suo disagio verso un’esistenza già segnata dalla solitudine e dall’emarginazione:
salta la scuola, racconta bugie, scappa di casa, rubacchia; il suo unico amico
(oltre a Balzac) è il coetaneo e compagno di scorribande Réne –di famiglia
benestante ma altrettanto disastrata-, col quale progetta il furto della
macchina da scrivere del patrigno, ma la bravata gli costa cara: finisce in
riformatorio, dal quale evade per andare, finalmente, a vedere il mare…
Cosa dire di un film così perfetto, di un
capolavoro che a distanza di più di mezzo secolo non ha perso una stilla del
suo fascino immortale e della sua magia? I
quattrocento colpi è uno di quei motivi per cui vale la pena vivere (sì,
esagero!), è Arte nella sua espressione più sublime ed esaltante, capace di
emozionare grazie alla sua semplicità (ho già osservato altrove come tale
elemento si associ spesso ai capolavori…) e universalità.
Inserendo elementi autobiografici –anche
Truffaut è stato un adolescente “difficile” e tormentato- in un impianto
narrativo quasi documentaristico (come sottolineato dall’assenza di
inquadrature in soggettiva), debitore tanto del neorealismo italiano quanto del
rigore ascetico di Bresson (ma sono riscontrabili anche echi del Jean Vigo
anarchico di Zero in condotta, specie
nelle scene ambientate a scuola), Truffaut ha raccontato una toccante e sincera
storia di solitudine giovanile mantenendosi in ammirevole equilibrio tra
lucidità, obiettività, affetto e partecipazione e riuscendo a non scadere mai
nel patetico o nel facile sentimentalismo. Eppure il film raggiunge lo stesso
picchi di intensità emotiva straordinari, grazie anche alla stupenda colonna
sonora di Jean Constantin, capace di amplificare e liberare le emozioni fino
alla catarsi, ed alla fotografia di Henry Decae (e André Dino), che cattura in
uno splendido bianco e nero tutta la poeticità e la fatata suggestione di una
Parigi invernale e –leopardianamente-
indifferente ai sentimenti umani, fino all’apoteosi del finale, uno dei
più belli di tutta la storia del cinema (quasi impossibile non commuoversi!):
il raggiungimento del mare, la meta tanto agognata, un immenso spazio aperto
che è forse la più efficace metafora dello sconfinato desiderio di libertà che
anima Antoine…
Dunque, nella grande metropoli francese si
agita un piccolo cuore ammalato di solitudine e bisognoso tanto d’affetto
quanto di libertà, quest’ultima da intendersi sia come libertà di scelta che
come libertà d’espressione: Truffaut punta il dito contro il carattere
repressivo della società francese (famiglia, scuola, istituzioni) e demolisce
il mito della sacralità e solidità della famiglia…tra la situazione di Antoine,
figlio indesiderato di una madre nevrotica ed infedele, e quella di Réne,
abbandonato a sé stesso da una madre alcolizzata e da un padre tanto ricco
quanto assente, ce n’è davvero per tutti i gusti! Molto significativamente -ed
è, questo, un elemento ricorrente della poetica di Truffaut- l’unica medicina
efficace contro il male di vivere, l’unica possibilità di fuga da una realtà
inaccettabile è rappresentata dall’arte (in questo caso letteratura e cinema),
qui pure antidoto contro l’immensa solitudine di Antoine, che si affeziona a
Balzac fino al punto da dedicargli un altarino nella propria cameretta, cui accendere
una candela come ad un amico scomparso (bruciando poi la tenda!).
Straordinario il piccolo Jean-Pierre Léaud
(davvero l’interprete ideale per questo film!), che da qui in poi, attraverso
il suo personaggio, diventerà un vero e proprio alter ego del regista, che lo confermerà come protagonista nei
successivi quattro capitoli del ciclo dedicato ad Antoine Doinel, del quale
Truffaut seguirà le varie fasi di crescita e maturazione parallelamente a
quelle del suo interprete, un esperimento pressoché unico nella storia del
cinema. Così, a I quattrocento colpi faranno
seguito l’episodio di L’amore a vent’anni
(film collettivo del 1962 girato da cinque registi diversi), Baci rubati (1968), Non drammatizziamo… è solo questione di corna (1970) e L’amore fugge (1979), film che
documentano i primi amori, l’ingresso nel mondo degli adulti e la maturità di
Antoine (e in fondo, forse, anche di Jean-Pierre, che alla fine della saga ha
solo 35 anni, cioè la stessa età del suo personaggio), senza però riuscire a
ripetere l’incanto del primo.
L’ineguagliabile finale non è l’unica scena
che merita di essere citata tra quelle indimenticabili: valgono tantissimo
anche l’uscita con l’insegnante di ginnastica per le strade di Parigi, con gli
scolari che si dileguano uno dopo l’altro; le lacrime di Antoine durante il
trasferimento notturno verso il carcere; il disarmante colloquio con la psicologa.
Alcune curiosità sul film: il regista si concede
una fuggevole apparizione -davvero arduo riconoscerlo!- nella celebre scena
della giostra (è l’uomo accanto ad Antoine); breve cameo anche per l’attrice
Jeanne Moreau: è la donna che cerca di acchiappare il cane; tra gli assistenti
di Truffaut c’è il regista Philippe de Broca; I quattrocento colpi, nonostante fosse l’opera di un esordiente, ha
rappresentato il cinema francese nell’edizione ’59 del Festival di Cannes,
aggiudicandosi il premio per la regia; il titolo del film è un’espressione
gergale equivalente, più o meno, alla nostra “fare il diavolo a quattro”.
Sulla Nouvelle
Vague, ed in particolare sui rapporti tra Truffaut e l’amico e collega
Godard, segnalo l’interessante documentario I
due della Nouvelle Vague (Two in the
wave) del regista Emmanuel Laurent.
Francesco
Vignaroli
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