Cortona, Cinema Teatro Signorelli, lunedì 19 Gennaio 2015
La
vera storia di Chris Kyle, soprannominato “La leggenda”,
infallibile cecchino degli U.S. Navy Seals
sopravvissuto a ben quattro missioni in Iraq per poi morire in
patria, ancora giovane, ucciso da un altro reduce cui stava prestando
assistenza psicologica.
Otto
anni dopo lo splendido dittico bellico Flags of our
fathers/Lettere da Iwo Jima, che raccontava il
secondo conflitto mondiale sia dal punto di vista americano che
giapponese, Clint Eastwood torna a parlare di guerra rievocando le
recenti e tristi vicissitudini dell’eroe americano Kyle
(interpretato da Bradley Cooper), inaspettatamente caduto sul suolo
natio dopo aver superato indenne –o quasi- l’Iraq.
Ma, dopo tanti capolavori, stavolta il grande vecchio Clint ha tirato un po’ il fiato (normale, quasi fisiologico, direi), girando un film tecnicamente ineccepibile ma privo di quel tocco di genio che caratterizzava opere quali Mystic River, Million dollar baby e Gran Torino. Forse la sceneggiatura, basata su fatti realmente accaduti, ha limitato la creatività del Maestro, che ha affrontato il tema –ormai trito e ritrito, per quanto importantissimo- della sporca guerra e delle conseguenze psicologiche che provoca nelle persone, in maniera insolitamente convenzionale.
Ma, dopo tanti capolavori, stavolta il grande vecchio Clint ha tirato un po’ il fiato (normale, quasi fisiologico, direi), girando un film tecnicamente ineccepibile ma privo di quel tocco di genio che caratterizzava opere quali Mystic River, Million dollar baby e Gran Torino. Forse la sceneggiatura, basata su fatti realmente accaduti, ha limitato la creatività del Maestro, che ha affrontato il tema –ormai trito e ritrito, per quanto importantissimo- della sporca guerra e delle conseguenze psicologiche che provoca nelle persone, in maniera insolitamente convenzionale.
Il
trentenne Kyle, un passato da cowboy di provincia alle spalle,
scopre la propria vocazione patriottica dopo il disastro dell’11
Settembre; si arruola presso lo “Zio Sam” e, grazie alla propria
determinazione, riesce a diventare una “stella” dei Navy
Seals, l’élite militare americana, in qualità di
cecchino addetto alla copertura e alla protezione dei commilitoni.
Dopo la prima di quattro missioni in Iraq, durante la quale Kyle si
trova costretto a uccidere un bambino (è la sua prima vittima),
niente sarà più lo stesso. L’uomo accusa già i primi sintomi
della sindrome del reduce, e la situazione peggiora missione dopo
missione, fino a trasformare Kyle, quando è in abiti civili, in un
pesce fuor d’acqua persino in casa propria (“SEI QUI, MA NON SEI
QUI”, gli dice la moglie). Per un destino beffardo, proprio quando
l’uomo, dopo aver deposto le armi, sembra aver trovato un suo
equilibrio interiore, arriva la morte.
Tutto
già visto, e meglio, in altri film: a livello di sceneggiatura,
American Sniper evidenzia i propri limiti nel modo, troppo
schematico e quasi banale, in cui viene tratteggiata la psicologia
del reduce e in cui viene mostrato il faticoso menage familiare
(per esempio, l’episodio del cane verso la fine del film, o le
discussioni con la moglie). Non va molto meglio con i dialoghi,
specie quelli tra i militari, farciti della solita retorica yankee.
Il
film si riscatta, invece, a livello estetico: le varie, lunghe scene
di guerriglia sono coreografate in maniera magistrale e restituiscono
un forte senso di pericolo e minaccia; splendida la sequenza finale
della quarta e ultima missione di Kyle, con la precipitosa fuga del
gruppo in mezzo ad un’apocalittica tempesta di sabbia.
Vengo,
dunque, al punto: American Sniper è un buon film, impeccabile
dal punto di vista formale ma piuttosto ordinario per ciò che
concerne i contenuti; un film girato con indiscutibile
professionalità ma nulla di più; un film dove il cervello prevale
nettamente sul cuore e dove le emozioni vere, di conseguenza, sono
poche.
Se
American Sniper fosse stato, ad esempio, l’esordio di un
giovane regista, magari il mio giudizio avrebbe potuto anche essere
meno severo; ma, trattandosi invece di un film di Clint Eastwood, e
vista anche la qualità cui ci ha abituati finora, era lecito
aspettarsi di più.
Da
confrontare con un altro recente (e, a mio giudizio, migliore) film
sulla guerra in Iraq: The hurt locker (2008), di Kathryn
Bigelow.
Francesco
Vignaroli
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