La seconda parte dell'articolo sarà pubblicata lunedì 2 febbraio 2015.
PREMESSA
Odio
i necrologi. Odio i piagnistei delle commemorazioni e le celebrazioni
postume, così cariche di pomposa retorica e buonismo. Me ne sono
sempre tenuto alla larga, e con il presente articolo non faccio certo
un’eccezione. Per questo lascerò che sia soltanto l’arte di Pino
Daniele a parlare e testimoniare la sua importanza per la musica e la
cultura del nostro Paese.
Detto
ciò, ritengo che l’unico modo per rendere omaggio con sobrietà e
semplicità (come, spero, sarebbe piaciuto a lui) a uno dei miei
cantautori preferiti sia quello di presentarvi, preceduta da un breve
riepilogo storico della sua carriera antecedente, una puntigliosa ma
assolutamente “partigiana” recensione di NERO A META’, per me
il suo album più bello, uno dei 10/15 dischi fondamentali del
cantautorato italiano.
Un’ultima
cosa, prima di cominciare: non me ne vogliano gli abitanti di tutte
le altre città d’Italia, ma essere rappresentati da una canzone
come Napule è, è un privilegio che solo Napoli e i
napoletani possono vantare (e lo dico da toscano) e che DEVE perciò
valere loro l’invidia di tutto il resto del Paese! E si mettano
l’anima in pace pure i tifosi delle altre squadre di calcio,
specialmente di quelle più ricche e titolate: il canto corale
intonato all’unisono dal pubblico del San Paolo prima della partita
Napoli - Juventus, lo scorso 11 Gennaio, è stato un momento unico e
ineguagliabile, talmente profondo ed emozionante da far impallidire,
al confronto, qualunque “banale” celebrazione di una vittoria
sportiva, e da far passare in secondo piano ciò che è accaduto in
seguito…
PROLOGO
Negli
anni ’70 la scena musicale napoletana è tra le più vivaci e
fertili d’Italia; in particolare, c’è grande fermento attorno al
fenomeno del progressive, cioè la nuova musica “giovane”
e colta che si è posta, assieme al cantautorato consapevole e
arrabbiato (De Andre’, Dalla, Guccini, Venditti, De Gregori, il
napoletano Bennato…), in contrapposizione rispetto al mainstream
dell’epoca (Sanremo e dintorni, per intenderci). A
conferma di ciò, basta citare artisti e gruppi come gli Osanna, il
Cervello, Il Balletto di Bronzo, il primo Alan Sorrenti, i Saint Just
di sua sorella Jane, il grande percussionista Toni Esposito, i Napoli
Centrale di James Senese; è proprio in occasione di un tour con
questi ultimi che si fa notare il bassista, mandolinista e
–soprattutto- chitarrista ventenne (1955) Pino Daniele, uno degli
ultimi “prodotti”, insieme a Teresa De Sio, di quella formidabile
“onda nuova” napoletana.
Dopo
essersi fatto le ossa come session man, nel 1976 pubblica Che
Calore, il suo primo 45 giri, che precede l’uscita, nell’anno
seguente, del suo notevole album d’esordio, TERRA MIA, in cui è
autore di testi, musiche e arrangiamenti. Il disco, quasi un’opera
concept incentrata sulla vita, i vizi e le virtù della Napoli
popolare, si apre con Napule è, la canzone-simbolo di tutta
la carriera dell’artista: si tratta di un’immortale e commovente
dichiarazione d’amore rivolta a Napoli in cui Pino, in soli quattro
minuti scarsi, mette a fuoco alla perfezione tutta la magia e le
contraddizioni della sua città, verso la quale esprime un sofferto e
contrastato sentimento di amore/odio. Il resto dell’album si
mantiene musicalmente nel solco di un folk prevalentemente acustico
-con la chitarra del leader sempre in evidenza- e rispettoso,
pur con una certa ironia, della tradizione popolare napoletana,
mostrando già comunque una notevole cura negli arrangiamenti e una
certa conoscenza della musica a trecentosessanta gradi (come si può
ben apprezzare in ‘O padrone), elementi che diventeranno
peculiari nei lavori successivi. Se, dunque, a livello musicale TERRA
MIA è un album “ortodosso”, non si può dire la stessa cosa per
quanto riguarda i testi, i cui contenuti si rivelano quasi antitetici
rispetto ai classici temi della canzone napoletana: senza peli sulla
lingua, Pino parla degli atavici problemi che affliggono la sua città
e la sua gente rimettendo in discussione certi punti fermi della
cultura partenopea, e lo fa con lucidità, coraggio, passione, rabbia
e indignazione, senza trascurare una certa dose di sarcasmo; così,
nascono dolenti ballate come l’amara Terra mia o la
drammatica Suonno d’ajere, ma anche sardoniche canzoni
d’accusa come ‘Na tazzulella ‘e cafè e Ce sta chi ce
penza, oltre ad efficaci ritratti di tipiche figure napoletane
come Furtunato. Si fa notare, poi, l’innovativa e radicale
scelta di utilizzare la lingua napoletana in tutti i brani; così,
grazie a Pino Daniele, l’idioma partenopeo varca i confini
regionali per diffondersi e farsi apprezzare nel resto dell’Italia.
Il tutto è cantato con una voce caratterizzata da un timbro
particolarissimo, che esprime il tipico e impareggiabile gusto
melodico napoletano, unito, però, a una forte carica soul e
blues, piena di sofferenza ed energia: un mix unico che fa
di Pino Daniele, appunto, un “nero a metà”.
Nel
1979 esce il secondo album, PINO DANIELE, in cui si regista una netta
crescita artistica rispetto all’esordio. I testi, ancora
prevalentemente in napoletano, sono sempre incentrati sulla realtà
partenopea, ma non in maniera così esclusiva come avveniva
nell’album precedente, bensì proponendo, in generale, storie e
temi di più ampio respiro in cui, rispetto alla rabbia e
all’amarezza prevalenti in TERRA MIA, cominciano a farsi largo un
certo romanticismo e una maggiore introspezione. Parallelamente ai
testi anche la musica si espande verso nuovi orizzonti, guardando
soprattutto agli States, con risultati eccellenti: le ambizioni
artistiche di Pino sono assecondate alla perfezione da un gruppo di
ottimi musicisti. Se brani come Il mare, Viento e Donna
Cuncetta –un altro imperdibile ritratto di napoletanità DOC-
rimandano all’album precedente, nel resto del disco si respira
un’aria nuova, che annuncia le meraviglie prossime a venire:
l’arrangiamento fusion (con il piano elettrico di Ernesto
Vitolo in primo piano) della delicata Je sto vicino a te, la
trascinante Je so’ pazzo (altro brano-chiave della carriera
di Pino, dopo Napule è), la delicata malinconia di Putesse
essere allero, il geniale blues in anglo-napoletano (!) Ue
man!, l’audace, per l’epoca, Chillo è nu buono guaglione
–forse la prima canzone italiana ad affrontare in maniera esplicita
il tema della transessualità, in netto anticipo sui tempi- e,
infine, la dolorosa Chi tene ‘o mare (“CHI TENE ‘O MARE
‘O SAPE CA E’ FESSO E CUNTENTO./ CHI TENE ‘O MARE ‘O SSAJE
NUN TENE NIENTE”: un altro colpo al cuore della tradizionale
visione napoletana della vita!), impreziosita dallo struggente assolo
finale del sax tenore di James Senese, lanciano il disco in orbita e
lo proiettano nel futuro, verso l’imminente capolavoro che porterà
a compimento il percorso artistico di Pino Daniele. Intanto, è nato
il “blues napoletano”.
Sul
rapporto tra la musica di Pino Daniele e Napoli vi consiglio
caldamente un bel documentario dell’epoca realizzato da Ezio
Zefferi per “TG2 Dossier-Grandangolo” (con un po' di fortuna,
prima o poi potreste riuscire a vederlo su Rai Storia), in cui
vengono messi in evidenza i legami tra la realtà sociale napoletana
e le canzoni di protesta (estratte da questi primi due album) di
Pino, commentate per l’occasione dall’autore stesso.
Francesco
Vignaroli
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