Cortona, Cinema Teatro Signorelli. Venerdì 27 febbraio 2015
Oltre
all’accoppiata “d’oro” miglior film/miglior regia Birdman,
il nuovo film del regista messicano Alejandro Gonzales Inarritu (21
grammi, Babel), ha conquistato alla recente cerimonia
degli Oscar anche le statuette per la miglior sceneggiatura originale
e per la miglior fotografia, rivelandosi quindi protagonista assoluto
degli Academy Awards. Il che, dopo aver visto il film, appare a dir
poco sorprendente, e non certo perché Birdman non meritasse
tali riconoscimenti, anzi! A suscitare stupore è il fatto che sia
stato premiato uno dei film più anti-holliwoodiani dai tempi di
Viale del tramonto (1950), capolavoro di Billy Wilder che,
come Birdman, si è aggiudicato il premio Oscar per la
sceneggiatura (mancando però i due premi cruciali).
Intendiamoci subito: si tratta di due film agli antipodi – del resto, ci sono ben sessantacinque anni di tempo a dividerli!- quanto a caratteristiche stilistiche, linguaggio cinematografico, svolgimento della storia… ma entrambi esplorano, seppur da prospettive differenti, il lato oscuro di Hollywood, facendo immergere lo spettatore in un’atmosfera decadente, crepuscolare, “da disarmo”, e mostrando la tigre di cartapesta, o il gigante dai piedi di argilla, se preferite, in tutta la sua fragilità e vacuità: “IL RE E’ NUDO”, “SOTTO IL VESTITO NIENTE”, “QUEL CHE RESTA DELLA FESTA”, e via citando, sperando di aver reso l’idea. Se in Viale del tramonto la critica alla “fabbrica dei sogni” avviene in forma “nera”, in Birdman il mito è demolito a colpi di sarcasmo da una storia drammatica, ma abilmente celata sotto le accattivanti mentite spoglie di una commedia.
Intendiamoci subito: si tratta di due film agli antipodi – del resto, ci sono ben sessantacinque anni di tempo a dividerli!- quanto a caratteristiche stilistiche, linguaggio cinematografico, svolgimento della storia… ma entrambi esplorano, seppur da prospettive differenti, il lato oscuro di Hollywood, facendo immergere lo spettatore in un’atmosfera decadente, crepuscolare, “da disarmo”, e mostrando la tigre di cartapesta, o il gigante dai piedi di argilla, se preferite, in tutta la sua fragilità e vacuità: “IL RE E’ NUDO”, “SOTTO IL VESTITO NIENTE”, “QUEL CHE RESTA DELLA FESTA”, e via citando, sperando di aver reso l’idea. Se in Viale del tramonto la critica alla “fabbrica dei sogni” avviene in forma “nera”, in Birdman il mito è demolito a colpi di sarcasmo da una storia drammatica, ma abilmente celata sotto le accattivanti mentite spoglie di una commedia.
Protagonista
della vicenda è Riggan Thompson, ex stella di Hollywood sulla
sessantina che, nauseato dal successo “di plastica” e in piena
crisi esistenziale e d'identità, dopo aver preso atto di non avere
più né le motivazioni né le physique du role per continuare
ad impersonare sul grande schermo il supereroe Birdman (chiara
parodia di Batman), tenta di vivere una seconda giovinezza artistica
riproponendosi come attore teatrale a Broadway. La sua vita, però, è
alquanto incasinata: non riesce a ricucire con l’ex moglie, ha un
rapporto a dir poco difficile con la giovane e ribelle figlia ex
tossicodipendente (qui, sono tutti “ex” qualcosa), fa una fatica
bestiale per tenere a bada il lunatico e nevrotico divo del teatro
Mike Shiner (un’autentica primadonna, spavaldo sul palco quanto
insicuro e fragile fuori), inserito da poco nella compagnia, che pure
riesce a mandargli a monte la prima anteprima (scusate il gioco di
parole) della sua rappresentazione What we talk about when we talk
about love (“Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”),
dall’opera di Raymond Carver. Come se tutto questo non bastasse,
Tabitha Dickinson, la più influente e temuta critica teatrale di New
York, gli ha già promesso, preventivamente, di stroncargli lo
spettacolo, e poi c’è quella diabolica vocina interiore –una
sorta di daimon socratico alla rovescia- che lo tormenta senza
tregua, cercando in tutti i modi di riportarlo sulla “cattiva
strada” (cioè a Hollywood), aiutata dalle continue visioni/ricordi
“da Birdman” in cui il nostro crede di spostare e fracassare
oggetti, o di volare, grazie ai suoi superpoteri (davvero geniale e
divertentissima la scena in cui “Birdman” arriva a teatro dopo un
lungo volo, salvo poi venir inseguito fin dentro l’edificio da un
tassista inferocito che reclama la paga). A dispetto degli amletici
dubbi -rappresentati dall’altro sé- che lo attanagliano, Riggan è fermamente deciso a non tornare sui propri passi:
basta ai film da blockbuster, basta al “cibo per le masse”,
basta agli spettacoli privi di spessore culturale, basta al successo
facile che mortifica le ambizioni artistiche… Inoltre, insensibile
alle esortazioni della figlia, il nostro è orgogliosamente tetragono all’invasione dei social
network (altro spunto di riflessione sollevato dal film molto
interessante, vista la sua attualità), nonostante le nuove frontiere
dello show business richiedano, o forse è meglio dire
impongano, una continua sovraesposizione mediatica al fine di
“difendere il marchio” e “piazzare il prodotto”. Ma la sua
fiera, quanto anacronistica -ahimé!- opposizione è destinata a
crollare e, suo malgrado, alla fine anche lui si ritrova a bollire
nell’immenso calderone di Facebook, Twitter, ecc..., assistendo
all’incredibile trasformazione, in questo mondo alla rovescia ormai
privo di pudore e decenza, della sua tragedia finale (un autentico
“CUP DE TEATRE”, come direbbe Biscardi) in un evento che provoca
un aumento vertiginoso dei suoi followers… Logico che, in un
mondo così, uno come Riggan, sospeso tra un passato che non riesce a
superare e un presente incerto e incomprensibile, non riesca più a
trovar posto, e da qui l’inevitabile desiderio di un ultimo volo
(“…SORPRENDITI DI NUOVO PERCHE’ ANTONIO SA VOLARE”: le ultime
parole della toccante Ti regalerò una rosa di Simone
Cristicchi).
Birdman
è un film di dualismi e contrasti: Hollywood/Broadway, Los
Angeles/New York, cinema/teatro, milioni di spettatori/centinaia di
spettatori, cultura “bassa”/cultura “alta”,
fama&ricchezza/nicchia&gratificazione professionale,
nostalgia del passato/abiura, autoconservazione/ autodistruzione...
Ma c’è dell’altro: la scelta di Michael Keaton come attore
protagonista innesca un voluto cortocircuito tra realtà e finzione,
caricando di implicazioni autobiografiche un film già solidamente
agganciato alla realtà in quanto opera che riflette sul mondo del
cinema e, più in generale, sull’intima essenza del “fare
spettacolo”. Il perché la presenza di Keaton arricchisca di
sfumature autobiografiche il discorso metacinematografico di Birdman
è presto detto: l’attore ha indossato il costume di Batman nei
due film dedicati al supereroe dei fumetti da Tim Burton (Batman,
del 1989 e Batman returns, del 1992, entrambi
prontamente riproposti da Italia Uno nei gironi scorsi), vivendo
probabilmente il suo periodo di massima popolarità. Dopo Batman,
la sua carriera cinematografica è proseguita, almeno in termini
quantitativi, all’insegna di un profilo più basso, facendo
riscontrare un certo diradamento degli impegni e la scelta di film
meno “commerciali”: qualsiasi riferimento a fatti e persone è
puramente voluto… In Birdman Michael Keaton se la
cava bene, ma non abbastanza da poter soffiare il premio Oscar come
miglior attore protagonista a Eddy Redmayne, semplicemente straordinario nei panni dello
scienziato Stephen Hawking ne La teoria del tutto; ancora
meglio di Keaton fa il bravo Edward Norton (nel ruolo di Mike), che
riesce a rubargli la scena in più di una circostanza.
Non
accade tanto spesso che il mondo dello spettacolo (e, al suo interno,
il cinema, specie quello americano) faccia autocritica, decidendo di
lavare in pubblico i propri panni sporchi. Con Birdman lo ha
fatto e bene, con lucidità, ironia, irriverenza e la giusta dose di
sana cattiveria (le battute “velenose” non si contano). Una volta
tanto, la giuria degli Academy Awards ha deciso coraggiosamente di
premiare con gli Oscar più importanti un film originale,
intelligente, irriverente, complesso, non allineato e “politicamente
scorretto”. Un film ricchissimo di idee e contenuti, dallo sviluppo
tutt’altro che lineare o prevedibile, un film che merita di essere
rivisto almeno una volta e che può vantare il raro privilegio di
aver aperto una breccia nel granitico sistema hollywoodiano,
nonostante il suo status di opera irregolare e “non
istituzionale”. Il che, nell’epoca del pensiero unico (o quasi),
non è poco…
Francesco
Vignaroli
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