Monte San Savino, Teatro Verdi. Mercoledì 11 marzo 2015
La
storia ci ha dimostrato a più riprese come lo sport, forse il vero
oppio dei popoli (almeno dal ‘900 in poi), proprio in virtù della
sua enorme popolarità si arricchisca spesso di significati che
travalicano il semplice aspetto ludico per abbracciare altri ambiti
della vita umana, come la cultura, la socialità o la politica.
Riguardo quest’ultima, vi basti pensare, come esempio concreto, a
tutte le implicazioni politiche assunte dal più importante evento
sportivo mondiale, cioè le Olimpiadi: durante il mese olimpico, gli
stati belligeranti osservano (purtroppo, non sempre) la cosiddetta
“tregua olimpica”, in base alla quale si impegnano a sospendere
le ostilità almeno per tutta la durata dei Giochi.
Oltre a questo le Olimpiadi, essendo un evento che garantisce una sicura visibilità planetaria, sono state non di rado sfruttate dagli atleti, o da intere nazioni alle loro spalle, per lanciare messaggi al Mondo. Mi viene subito in mente, giusto per citare uno degli episodi più eclatanti, la celebre esultanza col pugno chiuso guantato di nero (in sostegno al “Progetto Olimpico per i Diritti Umani”) di Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente oro e bronzo nei 200m alle olimpiadi di Città del Messico nel 1968; ma è opportuno ricordare pure, negli anni ’80, e cioè in piena guerra fredda, il boicottaggio incrociato tra Stati Uniti e URSS alle rispettive Olimpiadi (gli americani disertarono in blocco i Giochi di Mosca 1980, ricambiati dai sovietici nell’edizione successiva di Los Angeles). E cosa dire del calcio, forse lo sport più popolare e praticato al mondo? Se parliamo di legami tra calcio e politica, oggi è quasi automatico pensare al turpe fenomeno -particolarmente accentuato in Italia- della cosiddetta “politicizzazione delle curve”: ben consapevoli dell’enorme esposizione mediatica garantita dal calcio, le frange estreme degli Ultras trasformano spesso le curve degli stadi in veri e propri luoghi di propaganda “ideologica”, sostituendo le bandiere e i cori d’incitamento alla propria squadra con slogan e striscioni dagli espliciti (e quasi sempre negativi) riferimenti politici, che nulla hanno a che vedere con lo sport. Dal canto loro, i giocatori si limitano a utilizzare le telecamere per mostrare, attraverso magliette indossate sotto la divisa sociale ed esibite dopo un gol, impudiche rivendicazioni di appartenenza religiosa o sociale (come la frase “I BELONG TO JESUS” esibita dall’”atleta di Cristo” ed ex milanista Kakà) o autoreferenziali dediche a familiari (fidanzate, mogli, figli, genitori…) e amici. Per fortuna, non è sempre così e, soprattutto, non è stato sempre così. Per quanto più sporadiche e meno enfatizzate dai mass media (purtroppo, vale sempre il detto “FA MOLTO PIU’ RUMORE UN ALBERO CHE CADE RISPETTO A CENTO ALBERI CHE CRESCONO”…), ci sono state anche situazioni in cui il mondo “pallonaro” si è distinto per il comportamento esemplare di giocatori e tifosi, che hanno saputo dare dimostrazione di una sensibilità sociale a volte sorprendente. Tanto per non tornare troppo indietro nel tempo, ricordate, alcuni anni fa, la netta presa di posizione dei giocatori del Treviso che, per protestare contro il razzismo, scesero in campo con il volto dipinto di nero come segno di solidarietà verso un compagno “di colore” (il virgolettato a sottolineare l’assurdità di questa espressione comune: perché identificare solo i neri come “di colore”? Siamo tutti “di colore”!) che era stato vittima di discriminazioni di tipo razziale? Potrei citare, inoltre, certi striscioni esibiti dai tifosi di varie squadre per esprimere solidarietà nei confronti dei connazionali vittime di calamità naturali (terremoti, alluvioni…) o episodi di violenza umana (rapimenti, guerre, terrorismo…).
Oltre a questo le Olimpiadi, essendo un evento che garantisce una sicura visibilità planetaria, sono state non di rado sfruttate dagli atleti, o da intere nazioni alle loro spalle, per lanciare messaggi al Mondo. Mi viene subito in mente, giusto per citare uno degli episodi più eclatanti, la celebre esultanza col pugno chiuso guantato di nero (in sostegno al “Progetto Olimpico per i Diritti Umani”) di Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente oro e bronzo nei 200m alle olimpiadi di Città del Messico nel 1968; ma è opportuno ricordare pure, negli anni ’80, e cioè in piena guerra fredda, il boicottaggio incrociato tra Stati Uniti e URSS alle rispettive Olimpiadi (gli americani disertarono in blocco i Giochi di Mosca 1980, ricambiati dai sovietici nell’edizione successiva di Los Angeles). E cosa dire del calcio, forse lo sport più popolare e praticato al mondo? Se parliamo di legami tra calcio e politica, oggi è quasi automatico pensare al turpe fenomeno -particolarmente accentuato in Italia- della cosiddetta “politicizzazione delle curve”: ben consapevoli dell’enorme esposizione mediatica garantita dal calcio, le frange estreme degli Ultras trasformano spesso le curve degli stadi in veri e propri luoghi di propaganda “ideologica”, sostituendo le bandiere e i cori d’incitamento alla propria squadra con slogan e striscioni dagli espliciti (e quasi sempre negativi) riferimenti politici, che nulla hanno a che vedere con lo sport. Dal canto loro, i giocatori si limitano a utilizzare le telecamere per mostrare, attraverso magliette indossate sotto la divisa sociale ed esibite dopo un gol, impudiche rivendicazioni di appartenenza religiosa o sociale (come la frase “I BELONG TO JESUS” esibita dall’”atleta di Cristo” ed ex milanista Kakà) o autoreferenziali dediche a familiari (fidanzate, mogli, figli, genitori…) e amici. Per fortuna, non è sempre così e, soprattutto, non è stato sempre così. Per quanto più sporadiche e meno enfatizzate dai mass media (purtroppo, vale sempre il detto “FA MOLTO PIU’ RUMORE UN ALBERO CHE CADE RISPETTO A CENTO ALBERI CHE CRESCONO”…), ci sono state anche situazioni in cui il mondo “pallonaro” si è distinto per il comportamento esemplare di giocatori e tifosi, che hanno saputo dare dimostrazione di una sensibilità sociale a volte sorprendente. Tanto per non tornare troppo indietro nel tempo, ricordate, alcuni anni fa, la netta presa di posizione dei giocatori del Treviso che, per protestare contro il razzismo, scesero in campo con il volto dipinto di nero come segno di solidarietà verso un compagno “di colore” (il virgolettato a sottolineare l’assurdità di questa espressione comune: perché identificare solo i neri come “di colore”? Siamo tutti “di colore”!) che era stato vittima di discriminazioni di tipo razziale? Potrei citare, inoltre, certi striscioni esibiti dai tifosi di varie squadre per esprimere solidarietà nei confronti dei connazionali vittime di calamità naturali (terremoti, alluvioni…) o episodi di violenza umana (rapimenti, guerre, terrorismo…).
Ben
oltre gli episodi riportati, c’è stato un momento, probabilmente
irripetibile, in cui lo sport più amato al mondo (e, se non al
mondo, senz’altro nel paese in cui si è svolta questa vicenda!) ha
saputo addirittura anticipare e favorire il progresso sociale,
fornendo un esempio decisivo per il ritorno della democrazia in una
nazione come il Brasile, oppressa da una ventennale dittatura
militare (1964-1884). Sto parlando della leggendaria Democratia
Corinthiana (1982-1984), cioè il primo (e, credo, unico) caso,
nella storia del calcio, di autogestione collettiva e democratica di
una società: il glorioso Corinthians di San Paolo, in cui tutte le
decisioni, di qualunque tipo fossero (tecniche, logistiche,
economiche…), venivano prese applicando alla lettera gli ideali
costitutivi della democrazia. Concretamente, tutto ciò si traduceva
in due principi fondamentali: 1) votazione a maggioranza su ogni
questione; 2) diritto di voto riconosciuto a TUTTI i membri del
club, partendo dal presidente, passando per dirigenti, tecnico e
giocatori, fino ad arrivare a magazzinieri, giardinieri… Nessuno
era escluso e, naturalmente, a prescindere dal ruolo rivestito nella
società, tutti erano dotati di pari dignità e quindi di uguale
“peso politico”. L’ideologo e principale artefice di questa
vera e propria -ancorché breve- “primavera corinthiana” fu il
grande Socrates (1954-2011), indimenticabile centrocampista dal
portamento regale e dalla classe sopraffina, così chiamato dal
padre, grande appassionato di classici greci, dopo aver letto La
Repubblica di Platone. Soprannominato O doutor (il
dottore) per via della professione di medico che, dopo aver
conseguito la laurea in medicina, esercitava parallelamente a quella
di calciatore professionista, Socrates fu molto più che un
calciatore. In virtù del carisma, della notevole cultura e
intelligenza che, unite a idee politiche dichiaratamente di sinistra,
lo portarono ben presto a distinguersi, pur nell’opprimente Brasile
di quegli anni, come uno spirito libero, eccentrico, politicamente
impegnato e insofferente ai soprusi perpetrati dalle autorità, non è
esagerato definire Socrates come un intellettuale. Viste tali
premesse, chi, se non lui, poteva farsi promotore della
piccola/grande rivoluzione che ha portato il Corinthians di San Paolo
a porsi come un’isoletta di democrazia –quasi un paradiso in cui
si era avverata l’utopia- nell’oceano della dittatura?
Proprio
dal tipico “marchio di fabbrica” (nel senso di gesto tecnico più
caratteristico) di Socrates, cioè il colpo di tacco, prende il nome
La libertà è un colpo di tacco, il monologo –tratto da un
racconto di Riccardo Lorenzetti- scritto e diretto da Manfredi
Rutelli e interpretato da Roberto Ciufoli, attore che ha conquistato
una certa popolarità televisiva come membro del quartetto comico la
Premiata Ditta. Piacevolmente sospeso tra puntigliosa ricostruzione
storica e affabulazione, lo spettacolo rievoca i giorni eroici della
Democracia Corinthiana, seguendo contemporaneamente le
vicissitudini di due compagini tanto pittoresche -ciascuna a suo
modo- quanto intimamente legate tra loro dal comune ideale
democratico: Socrates, Biro-Biro, Wladimir, Casagrande e gli altri
giocatori del Corinthians da una parte; Alvaro Cunha, Violetta e gli
altri giornalisti del locale quotidiano sindacal/sportivo (e covo di
tifosi corinthiani) “Il Cardellino”, perennemente in lotta contro
la censura (e le botte), dall’altra. La piece segue le
vicissitudini dei protagonisti con affetto, poesia, ironia e una
certa nostalgia; grazie a una scrittura agile, che ha evitato
pesantezza ed eccessi didascalici, la noia è costantemente tenuta
alla larga, e non si può fare a meno di venire catturati dalla
storia. Merito anche dell’appassionata e coinvolgente esposizione
di Roberto Ciufoli che, pur mantenendo il tono del monologo vivace e
colorato, evita di “sbracare” con inutili “gigionerie”,
riuscendo comunque a tener viva l’attenzione dello spettatore senza
mai perdere un colpo per tutta l’ora e un quarto abbondante della
sua solitaria esibizione, integrata da brevissimi commenti musicali
che costituiscono l’unico extra di una messinscena
opportunamente essenziale.
Torniamo
alla Democracia Corinthiana e a Socrates, giusto per
approfondire ulteriormente la vicenda (cosa che, del resto, in parte
fa anche Ciufoli durante lo spettacolo) e chiudere il cerchio.
Il
grande numero 8 esordì nel Corinthians alla fine degli anni ’70.
Il Timào -altro nome con il quale i tifosi indicano il club-
era ed è considerato la “squadra del popolo” di San Paolo
(quindi, sulla carta, la più idonea ad accogliere uno come
Socrates), in netta contrapposizione rispetto ai rivali storici del
Sao Paulo, società tradizionalmente associata agli esponenti
dell’alta borghesia cittadina. Nel ’79 Socrates vinse con il
Corinthians il suo primo Paulistao, il campionato statale, che
in Brasile si gioca parallelamente al Brasileirao, il
campionato nazionale, ed è forse più sentito di quest’ultimo.
Poi, in quelli che Ciufoli chiama “ANNI DI MEZZO” (per indicare
una fase di transizione), cioè i primi ’80, periodo in cui la
dittatura cominciò a dare segni di stanchezza, Socrates e compagni
crearono quella Democracia Corinthiana che stupì il mondo intero,
allo scopo di favorire il risveglio della coscienza democratica nei
propri connazionali e dimostrare con il loro esempio concreto che un
“altro Brasile” fosse possibile. Forti di una compattezza
granitica e di un totale affiatamento, oltre che di quella
rivoluzionaria organizzazione interna egualitaria di cui sopra, i
giocatori del Timào si resero protagonisti di clamorose iniziative
mai viste prima, che trasformarono il calcio brasiliano, fino ad
allora soltanto alegria del pueblo, in consciencia del pueblo. Il
primo passo per reclamizzare il loro progetto fu un’idea semplice e
geniale: far stampare nel retro delle divise da gioco, proprio sopra
il numero (cioè dove le altre squadre portavano il nome dello
sponsor), la scritta “Democracia Corinthiana”; l’espediente fu
ripetuto, in seguito, sostituendo la scritta con slogan che
esprimevano, ad esempio, messaggi politici rivolti alla dittatura
(come la richiesta della liberazione di importanti sindacalisti),
oppure appelli alla popolazione, cui si raccomandava di andare a
votare (sì, perché, almeno a livello locale, le libere elezioni
erano state ripristinate). Nonostante l’assiduo impegno civile e
politico, i giocatori non trascurarono i doveri sportivi e,
trascinati da Socrates, siglarono una storica doppietta con i due
titoli paulisti consecutivi del 1982 e del 1983, togliendosi pure
l’impagabile soddisfazione, nel primo caso, di battere in finale
gli odiati concittadini del Sao Paulo. Se la dittatura era ormai agli
sgoccioli, valeva altrettanto per la Democracia Corinthiana: a porre
definitivamente fine a quell’incredibile stagione di calcio&ideali
fu la contemporanea partenza, nel 1984, del leader Socrates e del
giovane Casagrande. Il primo fu protagonista di un anonimo campionato
con la Fiorentina nella stagione ‘84/’85 (25 presenze e 6 gol),
cui fece seguito un immediato ritorno in patria: i ritmi forsennati
della Serie A, all’epoca (ma oggi non più!) il più bello ma
probabilmente anche il più stressante campionato al mondo, non si
addicevano proprio al compassato “Dottore che non curava la
fatica”! Anche Casagrande, dopo un inatteso trasferimento presso i
“nemici” del Sao Paulo cui fecero seguito un fugace ritorno al
Corinthians e un'altrettanto breve parentesi portoghese, giunse in
Italia per vestire le maglie di Ascoli e Torino, arrivando con i
granata fino alla sfortunatissima finale di Coppa UEFA ’92,
immeritatamente persa contro l’Ajax. Se Socrates, dal punto di
vista meramente calcistico, non è riuscito a lasciare un buon
ricordo di sé nel nostro paese (ma quel campionato ‘84/’85 non
fa testo, se consideriamo la sua carriera precedente), evidentemente
non si può dire altrettanto del fascino esercitato dalla sua figura
di intellettuale e simbolo della Democracia Corinthiana, rimasto
immutato a più di trent’anni di distanza: oltre al qui presente, e
ottimo, spettacolo teatrale, che per una notte ha colorato di verde e
oro –i colori della maglia di calcio del Brasile- il grazioso
teatro Verdi di Monte San Savino, esiste anche il film documentario
di Mimmo Calopresti Socrates, uno di noi (2014), trasmesso da Rai Tre
nel giugno scorso.
Francesco
Vignaroli
Compagnia LST TEATRO (Siena)
LA LIBERTÀ È UN COLPO DI TACCO
scritto e diretto da Manfredi Rutelli da un racconto di Riccardo Lorenzetti
con ROBERTO CIUFOLI
musiche originali di Massimiliano Pace
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