Roma,
Teatro Quirino. Dal 7 al 19 aprile 2015
Dove
può portare la psiche umana, quali abissi può esplorare? La realtà
è una sola, oppure tutto è sogno che si riflette in mille specchi
deformanti e riflettenti altrettante verità? Arthur Schnitzler,
tormentato drammaturgo del 900 austriaco, e prima ancora medico, al
quale lo stesso Freud riconosceva intuizioni che il grande
psicanalista aveva afferrato solo dopo anni di studi, scrisse la sua
Traumnovelle (traduzione letterale è Novella del sogno), “novella
traumatica” nel 1926, dopo il suicidio della figlia quindicenne.
Fino ad oggi, mai questo testo era stato rappresentato in teatro
ed è ben comprensibile, vista la complessità e le oggettive
difficoltà nel tramutare in scena il visionario e contorto racconto.
Va dato merito a Giancarlo Marinelli, regista di Doppio sogno, di
averne avuto il coraggio.
In scena al Teatro Quirino dal 7 aprile, con un cast importante sul palco, e nelle nostre teste il film di Stanley Kubrick, la prima ha destato più di qualche perplessità ma anche apprezzamenti, se non altro per lo sforzo scenografico(immane), per il tentativo dell’adattamento di dare un senso compiuto ai quadri rappresentati, in alcuni casi deliranti proprio come in un sogno. Amore e morte, peccato, perdono, riscatto, sensi di colpa, tutte le tematiche Schnitzleriane emergono in un mondo intangibile e fumoso (bellissime le scene di Andrea Bianchi) in cui è difficile distinguere il reale dalla sua ombra, il sensato dall’assurdità. Forza e limite di un racconto onirico. E di una rappresentazione teatrale. La storia è preceduta da una scena-prologo, un dialogo tra il medico Fridolin e la figlia malata, il cui significato diverrà via via lampante verso il finale, per poi continuare dal vero inizio della novella, il celebre alterco tra lo stesso medico (Rigillo) e la moglie (Murino) a seguito della festa di carnevale, con la confessione di lei sull’infedeltà immaginata e sfiorata in Danimarca. Da lì, il precipitare del giovane medico nell’incubo di un’interminabile notte nel suo subconscio tormentato (o anche nella realtà?), nelle sue celate psicosi, in contrapposizione all’apparente ordine borghese del suo status e della coppia in genere. Notte dalla quale riemergerà mondato delle sue convinzioni autodistruttive, pronto per proseguire il rapporto con la moglie con rinnovato slancio.
In scena al Teatro Quirino dal 7 aprile, con un cast importante sul palco, e nelle nostre teste il film di Stanley Kubrick, la prima ha destato più di qualche perplessità ma anche apprezzamenti, se non altro per lo sforzo scenografico(immane), per il tentativo dell’adattamento di dare un senso compiuto ai quadri rappresentati, in alcuni casi deliranti proprio come in un sogno. Amore e morte, peccato, perdono, riscatto, sensi di colpa, tutte le tematiche Schnitzleriane emergono in un mondo intangibile e fumoso (bellissime le scene di Andrea Bianchi) in cui è difficile distinguere il reale dalla sua ombra, il sensato dall’assurdità. Forza e limite di un racconto onirico. E di una rappresentazione teatrale. La storia è preceduta da una scena-prologo, un dialogo tra il medico Fridolin e la figlia malata, il cui significato diverrà via via lampante verso il finale, per poi continuare dal vero inizio della novella, il celebre alterco tra lo stesso medico (Rigillo) e la moglie (Murino) a seguito della festa di carnevale, con la confessione di lei sull’infedeltà immaginata e sfiorata in Danimarca. Da lì, il precipitare del giovane medico nell’incubo di un’interminabile notte nel suo subconscio tormentato (o anche nella realtà?), nelle sue celate psicosi, in contrapposizione all’apparente ordine borghese del suo status e della coppia in genere. Notte dalla quale riemergerà mondato delle sue convinzioni autodistruttive, pronto per proseguire il rapporto con la moglie con rinnovato slancio.
Ora,
il problema è nella difficoltà della rappresentazione scenica di un
tale racconto. Se dal 1926 ad oggi, la novella di Schnitzler non è
mai stata portata in teatro, un motivo ci sarà. Apprezzabile, come
detto, lo sforzo, non si può tacere che nelle due ore di spettacolo
(termine che dovremmo sempre tenere a mente) il filo della narrazione
si perde ripetutamente, anche per scelte che francamente appaiono
sconcertanti, come la presenza dei teletubbies o altre scene rimaste,
ai più, incomprensibili. Uno spettacolo è rivolto al pubblico, che
non è tenuto a seguire un trattato di psicanalisi prima di andare a
teatro per capire ciò a cui assiste. Apprezzabile l’utilizzo degli
attori in più ruoli (la Murino è cinque donne) ed il finale, in cui
Fridolin si risveglia da quella che, si svela, era una seduta di
ipnositerapia. Tutto un sogno, quindi ma, come recita il testo
originale, “nessun sogno è veramente un sogno”. Contorto,
spiazzante, a tratti forse pretenzioso, qualche passaggio di ardua
comprensione. Un lavoro certosino, lo si nota nella cura di ogni
particolare, ma il sentimento che domina in platea in questa prima è
lo sconcerto. Ora la parola passa al pubblico, unico vero giudice.
Paolo
Leone
Compagnia
Molière presenta: Ivana Monti, Caterina Murino, Ruben Rigillo,
Rosario Coppolino in Doppio sogno, di Giancarlo Marinelli, tratto
dall’omonimo racconto di Arthur Schnitzler
Con:
Andrea Cavatorta, Francesco Maria Cordella, Serena Marinelli, Simone
Vaio, Carlotta Maria Rondana.
Scene
di Andrea Bianchi; Costumi di Adelia Apostolico; Musiche di Roberto
Fia; Luci di Mirko Oteri.
Regia
di Giancarlo Marinelli.
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