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05 aprile, 2015

L’Indecente gioco del teatro. Di Laura Cavallaro



Catania, Palazzo Platamone “Corte Mariella Lo Giudice”. Dal 20 marzo al 4 aprile 2015 

Per niente nuovo alla mise en scene di testi contemporanei, l’ultima scommessa del Teatro Stabile di Catania porta il titolo de L’indecenza, dal romanzo della giornalista e scrittrice Elvira Seminara, adattato per il teatro da Rosario Castelli e per la regia di Giampiero Borgia. Già nella scorsa stagione avevamo assistito al binomio Seminara/Borgia nello spettacolo intitolato Scusate la polvere, L’indecenza però è un testo ben più complesso e accattivante, insomma una bella scommessa per il regista pugliese, che ha sfoderato molte idee interessanti a partire dall’impianto scenico. Lo spettacolo è concepito in modo da dividere il pubblico in due parti distinte che non comunicano tra loro, mentre al centro della grande sala, avvolto da velatini e da specchi in posizioni strategica c’è la casa dei protagonisti. Una moglie(Valeria Contadino)vive insieme al marito (David Coco) in una casa circondata dai ricordi: souvenir, quadri, cuscini e piante, un giardino tutto intorno.
E’ così che lo spettatore li può scrutare indisturbato, senza che nessuno dei due possa vederlo, sono topi in gabbia, come quelli che sembrano infestare la casa, i cui gesti e movimenti passano sotto la lente d’ingrandimento del pubblico. Ad un primo sguardo la vita di questa coppia sembra normale, lei accudisce la casa, lui è un avvocato di successo, ma questa apparente calma nella quale si muovono inizia a scricchiolare in maniera pretestuosa quando arriva Ludmilla (Elena Cotugno), una giovane colf ucraina venuta in Sicilia per tentare di cambiare la sua vita ed aiutare la famiglia. La ragazza, l’unica sia nel romanzo sia nello spettacolo ad avere un nome, in breve tempo costituirà l’elemento di disturbo che andrà a crepare l’equilibrio precario che a tutti i costi i due hanno tentato di proteggere, facendo tracimare definitivamente ogni limite fisico e mentale della coppia. In un crescendo di disagio e di segreti che affiorano alla mente come in un flusso di coscienza, ciascuno dei tre protagonisti racconterà il suo dramma in solitarie confessioni allo specchio, dove vengono messi a nudo il corpo e l’anima, i desideri, le paure e le angosce. Il dolore che la moglie tenta di difendere dal mondo che la circonda, emergerà con la stessa forza dei segni che la gravidanza ha lasciato sul suo ventre svuotato, diventato ormai uno stagno sterile con un’acqua putrida, come quella avvelenata che ha fatto morire la sua bambina prima ancora che nascesse. L’aborto e l’impossibilità di avere altri figli portano questa donna a rinchiudersi in casa rinunciando alla carriera e a un matrimonio felice e costringendola a dover fare i conti con i sensi di colpa e l’inadeguatezza davanti allo sguardo del marito. Ludmìua sembra aver portato una ventata di aria fresca in quella casa così cupa, ma ben presto l’atmosfera muterà. La ragazza attirerà l’attenzione del marito che se da una parte la definisce la Bambina, forse per senso di protezione e di affetto, dall’altro sente la necessità di sentirsi amato e desiderato da una donna, visti i continui rifiuti da parte della moglie. La moglie stessa non è indifferente alla presenza della giovane con la quale crea un rapporto che diventa via via sempre più morboso, in un continuo tentativo di controllo che la fa diventare l’oggetto del suo desiderio. Il finale, tragico, straziante metterà in luce l’analogia tra Ludmilla e la bambina cullata da una ninna nanna di morte. La scenografia firmata da Giuseppe Avallone, che cura anche i costumi, rispecchia in pieno l’ambientazione raccontata dalla Seminara, in un tripudio di oggetti che sembrano riflettere il caos mentale della moglie. La casa è viva con i suoi rumori, le sue perdite d’acqua, l’umidità e il disfacimento. Nell’adattamento teatrale la figura del marito, uno straordinario David Coco, assume un nuovo peso rispetto al romanzo dove l’io narrante è la moglie. Una recitazione misurata eppure tagliente come una lama, per raccontare la sofferenza inespressa del lutto e l’incapacità di reazione di fronte alla devastante malattia della moglie. Bravissima Valeria Contadino che partendo in sordina esplode in un vortice di sentimenti, che la spingono a scavare sempre più in fondo dentro un personaggio che non mostra limiti. L’attrice con grande forza espressiva porta per la seconda volta sulle scene, dopo la struggente interpretazione di Anna in Se’ nummari, la drammatica vicenda di una madre costretta a dover fare i conti con la perdita del proprio figlio.
La difficoltà di questo testo è legata alla complessità di raccontare la pazzia. Il regista sceglie in un’ottica bipolare di mostrare alcune scene- chiave attraverso la loro ripetizioni, una soluzione audace ma valida solo in parte. Certi punti, se non si è letto il libro, risultano di difficile comprensione. Siamo consapevoli del fatto che il testo teatrale ha per sua natura delle prerogative che il romanzo non può e non deve avere ma il cambiamento di certi passaggi ha rallentato alcuni meccanismi che rimangono di fatto sospesi. In particolare l’approccio al personaggio di Ludmilla è emblematico, la ragazza ha un look grintoso, ciocche di capelli colorati, shorts aderenti che la mostrano sin da subito disinibita, forse sarebbe stato più interessante svelare, come avviene nel romanzo, pian piano il cambiamento, visto che non si tratta solo di un’evoluzione estetica ma anche dell’inizio di un nuovo percorso di vita. Malgrado questo l’interpretazione di Elena Cotugno è molto curata. Interessante anche l’uso delle musiche di Papaceccio MMC e Francesco Santalucia che puntano spesso sul contrasto, creando ancora una volta un’atmosfera ansiogena e claustrofobica.

Laura Cavallaro


Dal romanzo di Elvira Seminara
adattamento teatrale
 Rosario Castelli
regia
 Gianpiero Borgia scene e costumi Giuseppe Avallone
luci
 Franco Buzzanca
musiche
 Papaceccio MMC
con
 David Coco, Valeria Contadino, Elena Cotugno
produzione
 Teatro Stabile Catania


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