HEIMAT
(HEIMAT- Eine chronik
in elf talen)
RFT (GERMANIA
OCCIDENTALE) 1982 930’ (serie in 11 episodi) B/N e COLORE
REGIA: EDGAR REITZ
INTERPRETI: MARITA
BREUER, DIETER SCHAAD, RUDIGER WEIGANG, KURT WAGNER, PETER HARTING
VERSIONE DVD: SI’,
edizione DOLMEN HOME VIDEO
Dalla fine della
prima guerra mondiale all’inizio degli anni ’80, il ‘900 tedesco rivisitato
attraverso la saga generazionale della famiglia Simon, ambientata
nell’immaginario villaggio di Schabbach, nella regione (reale) dell’Hunsruck,
Germania sudoccidentale. Il piccolo paese di campagna fa da sfondo al moto
perpetuo della vita, fatto di cicli immutabili che nemmeno la Storia riesce a
mutare. Così, attorno alla figura centrale di Maria –il personaggio-cardine di
tutta la saga- si susseguono nascite, matrimoni, lutti, partenze, gioie,
dolori…
Heimat,
ossia luogo natìo, paese d’origine, casa paterna: la patria, le radici, un
punto di riferimento sicuro nella mappa del mondo. A metà strada tra cinema e
televisione, quest’opera fluviale e monumentale racconta la vita nella sua
semplicità, rinunciando a sovrastrutture ideologiche e spettacolarizzazioni per
puntare su un rigoroso realismo che si dedica a cantare l’“EPICA DEL
QUOTIDIANO” (Morandini) dell’affascinante microcosmo rurale di Schabbach, dove
la Storia, pur presente nella sua drammaticità e inevitabilità (le tribolazioni
del primo dopoguerra, il nazismo, la seconda guerra mondiale, la rinascita, il
progresso…), si configura come un riverbero che sembra quasi provenire da un
altro mondo. In Heimat il centro è
invece rappresentato proprio dalla “periferia dell’impero”, cioè Schabbach, la
cui comunità è protagonista di vicissitudini che, nel loro essere più “vere del
vero”, assumono un carattere universale, toccando corde in grado di emozionare
qualunque tipo di spettatore, a prescindere dalla nazionalità e dalla cultura
di appartenenza, senza però scivolare nel patetico o nel banale. I sentimenti
sono trattati con ammirevole misura e pudore, all’insegna di una costante
compostezza che, però, non si traduce mai in pesantezza, e che non esclude
parentesi ironiche e sdrammatizzanti, come testimoniano le figure di Eduard e
Glasisch. Agli ottimi attori, tutti dilettanti, sono affidati personaggi a
tutto tondo ricchi di sfumature e contraddizioni, con i quali si familiarizza
subito fino, inevitabilmente, ad affezionarsi loro. La scelta di ambientare la
saga nelle campagne dell’Hunsruck risponde al desiderio del regista Edgar Reitz
(co-autore della sceneggiatura, scritta con Peter Steinbach) di ricordare le
proprie origini, e rende particolarmente profondo e struggente – rispetto a un
luogo più asettico e spersonalizzante come può essere, ad esempio, una città-
il rapporto tra l’uomo e le proprie radici. La storia procede in un susseguirsi
incessante di partenze e ritorni, di cui il villaggio di Schabbach è muto e
comprensivo testimone. Al richiamo dell’Heimat
non resistono nemmeno i due personaggi che, preso atto della propria
diversità, hanno deciso di lasciare Schabbach, cioè Paul, ex-marito di Maria,
emigrato negli Stati Uniti in cerca di fortuna, e Hermann, ultimogenito di
Maria, trasferitosi a Monaco per diventare musicista.
Alla semplicità e
fluidità di dialoghi e situazioni -in ossequio a uno stile narrativo improntato
al realismo- fa da contraltare l’intricata scansione temporale del racconto,
caratterizzato dall’alternanza tra improvvisi salti in avanti, flashback e soste “contemplative”:
dobbiamo tenere presente che Heimat
abbraccia un arco temporale di circa 63 anni, e che le oltre quindici ore di
durata dell’opera riescono a fatica a restituire la ricchezza e la profondità
della sceneggiatura! Reitz rinuncia al realismo solo nella parte finale
dell’undicesimo e ultimo capitolo di Heimat,
dall’eloquente titolo La festa dei vivi e
dei morti, dove si assiste a un’inattesa sterzata fantastica che ci porta
nel magico mondo onirico del surrealismo: durante una festa paesana a
Schabbach, all’interno di un capannone si riuniscono tutti i personaggi del
racconto, sia i vivi che i morti. Un analogo espediente narrativo sarà
utilizzato, circa un decennio più tardi (1995), dal regista Emir Kusturica per
concludere il suo capolavoro Underground.
Degna di nota è anche
l’originalissima commistione tra colore e bianco e nero: un elemento
sperimentale che rende l’opera ancora più affascinante. Nei primi episodi di Heimat c’è una netta prevalenza del
bianco e nero, con il colore utilizzato soltanto in poche, brevi scene o per
evidenziare alcuni singoli particolari all’interno di un’inquadratura in bianco
e nero (come, ad esempio, il volto di un soldato nel primo capitolo); man mano
che la storia procede, il colore acquisisce progressivamente maggiore spazio,
fino a diventare preponderante negli ultimi capitoli.
Belle, infine, le musiche
(in particolare il tema principale, caratterizzato da un fascino misterioso e
magico) che, impiegate con parsimonia, commentano Heimat con efficacia e discrezione sia nella buona che nella
cattiva sorte, aggiungendo quel tocco di poesia che rende speciali certe scene.
In conclusione, posso
dire soltanto che, dopo aver portato a termine questa lunga maratona
cinematografica (fidatevi: ne vale la pena!), ci si può sentire davvero
gratificati e appagati, forti della certezza di aver assistito a qualcosa di
GRANDE…
Dopo il successo –sia
artistico che commerciale- di Heimat,
Reitz ha proseguito la saga con Heimat
2 - Cronaca di una giovinezza (1992),
Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale (2004), Heimat – Fragmente (2006) e
il recente L’altra Heimat – Cronaca di un
sogno (2013). Sempre dalla Germania proviene un progetto analogo: lo
sceneggiato in 14 puntate Berlin
Alexanderplatz, girato quattro anni prima di Heimat (1980) dal regista
Rainer Werner Fassbinder.
Francesco Vignaroli
Nessun commento:
Posta un commento