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28 maggio, 2015

VIAGGIO ATTRAVERSO L'IMPOSSIBILE - sogni di cinema, a cura di Francesco Vignaroli. Puntata numero 32: "HEIMAT- Eine chronik in elf talen"


HEIMAT
(HEIMAT- Eine chronik in elf talen)

RFT (GERMANIA OCCIDENTALE)     1982   930’ (serie in 11 episodi)  B/N e COLORE

REGIA: EDGAR REITZ

INTERPRETI: MARITA BREUER, DIETER SCHAAD, RUDIGER WEIGANG, KURT WAGNER, PETER HARTING

VERSIONE DVD: SI’, edizione DOLMEN HOME VIDEO


Dalla fine della prima guerra mondiale all’inizio degli anni ’80, il ‘900 tedesco rivisitato attraverso la saga generazionale della famiglia Simon, ambientata nell’immaginario villaggio di Schabbach, nella regione (reale) dell’Hunsruck, Germania sudoccidentale. Il piccolo paese di campagna fa da sfondo al moto perpetuo della vita, fatto di cicli immutabili che nemmeno la Storia riesce a mutare. Così, attorno alla figura centrale di Maria –il personaggio-cardine di tutta la saga- si susseguono nascite, matrimoni, lutti, partenze, gioie, dolori…

Heimat, ossia luogo natìo, paese d’origine, casa paterna: la patria, le radici, un punto di riferimento sicuro nella mappa del mondo. A metà strada tra cinema e televisione, quest’opera fluviale e monumentale racconta la vita nella sua semplicità, rinunciando a sovrastrutture ideologiche e spettacolarizzazioni per puntare su un rigoroso realismo che si dedica a cantare l’“EPICA DEL QUOTIDIANO” (Morandini) dell’affascinante microcosmo rurale di Schabbach, dove la Storia, pur presente nella sua drammaticità e inevitabilità (le tribolazioni del primo dopoguerra, il nazismo, la seconda guerra mondiale, la rinascita, il progresso…), si configura come un riverbero che sembra quasi provenire da un altro mondo. In Heimat il centro è invece rappresentato proprio dalla “periferia dell’impero”, cioè Schabbach, la cui comunità è protagonista di vicissitudini che, nel loro essere più “vere del vero”, assumono un carattere universale, toccando corde in grado di emozionare qualunque tipo di spettatore, a prescindere dalla nazionalità e dalla cultura di appartenenza, senza però scivolare nel patetico o nel banale. I sentimenti sono trattati con ammirevole misura e pudore, all’insegna di una costante compostezza che, però, non si traduce mai in pesantezza, e che non esclude parentesi ironiche e sdrammatizzanti, come testimoniano le figure di Eduard e Glasisch. Agli ottimi attori, tutti dilettanti, sono affidati personaggi a tutto tondo ricchi di sfumature e contraddizioni, con i quali si familiarizza subito fino, inevitabilmente, ad affezionarsi loro. La scelta di ambientare la saga nelle campagne dell’Hunsruck risponde al desiderio del regista Edgar Reitz (co-autore della sceneggiatura, scritta con Peter Steinbach) di ricordare le proprie origini, e rende particolarmente profondo e struggente – rispetto a un luogo più asettico e spersonalizzante come può essere, ad esempio, una città- il rapporto tra l’uomo e le proprie radici. La storia procede in un susseguirsi incessante di partenze e ritorni, di cui il villaggio di Schabbach è muto e comprensivo testimone. Al richiamo dell’Heimat non resistono nemmeno i due personaggi che, preso atto della propria diversità, hanno deciso di lasciare Schabbach, cioè Paul, ex-marito di Maria, emigrato negli Stati Uniti in cerca di fortuna, e Hermann, ultimogenito di Maria, trasferitosi a Monaco per diventare musicista.

Alla semplicità e fluidità di dialoghi e situazioni -in ossequio a uno stile narrativo improntato al realismo- fa da contraltare l’intricata scansione temporale del racconto, caratterizzato dall’alternanza tra improvvisi salti in avanti, flashback e soste “contemplative”: dobbiamo tenere presente che Heimat abbraccia un arco temporale di circa 63 anni, e che le oltre quindici ore di durata dell’opera riescono a fatica a restituire la ricchezza e la profondità della sceneggiatura! Reitz rinuncia al realismo solo nella parte finale dell’undicesimo e ultimo capitolo di Heimat, dall’eloquente titolo La festa dei vivi e dei morti, dove si assiste a un’inattesa sterzata fantastica che ci porta nel magico mondo onirico del surrealismo: durante una festa paesana a Schabbach, all’interno di un capannone si riuniscono tutti i personaggi del racconto, sia i vivi che i morti. Un analogo espediente narrativo sarà utilizzato, circa un decennio più tardi (1995), dal regista Emir Kusturica per concludere il suo capolavoro Underground.
Degna di nota è anche l’originalissima commistione tra colore e bianco e nero: un elemento sperimentale che rende l’opera ancora più affascinante. Nei primi episodi di Heimat c’è una netta prevalenza del bianco e nero, con il colore utilizzato soltanto in poche, brevi scene o per evidenziare alcuni singoli particolari all’interno di un’inquadratura in bianco e nero (come, ad esempio, il volto di un soldato nel primo capitolo); man mano che la storia procede, il colore acquisisce progressivamente maggiore spazio, fino a diventare preponderante negli ultimi capitoli.
Belle, infine, le musiche (in particolare il tema principale, caratterizzato da un fascino misterioso e magico) che, impiegate con parsimonia, commentano Heimat con efficacia e discrezione sia nella buona che nella cattiva sorte, aggiungendo quel tocco di poesia che rende speciali certe scene.

In conclusione, posso dire soltanto che, dopo aver portato a termine questa lunga maratona cinematografica (fidatevi: ne vale la pena!), ci si può sentire davvero gratificati e appagati, forti della certezza di aver assistito a qualcosa di GRANDE…

Dopo il successo –sia artistico che commerciale- di Heimat, Reitz ha proseguito la saga con Heimat 2 - Cronaca di una giovinezza (1992), Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale (2004), Heimat – Fragmente (2006) e il recente L’altra Heimat – Cronaca di un sogno (2013). Sempre dalla Germania proviene un progetto analogo: lo sceneggiato in 14 puntate Berlin Alexanderplatz, girato quattro anni prima di Heimat (1980) dal regista Rainer Werner Fassbinder.


Francesco Vignaroli

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