Nel tempio
laico del teatro si celebra nuovamente il mito di Clitennestra.La penna e la
visionaria regia di Vincenzo Pirrotta immaginano la regina di Micene,
interpretata da un’ insuperabile Anna Bonaiuto, ritornare sulla terra dopo
tremila anni dalla sua uccisioneper mano dei figli Oreste ed Elettra, allo
scopo diriscattare l’immagine di moglie sanguinaria che è stata tramandata. Al
suo arrivo scoprirà anche di dover ristabilire l’ordine di un mondo post-moderno
dove regnano il caos e la lordura e dove il potere è in mano ad una cerchia
ristretta di uomini proclamatisi dei.
Nella
platea del Teatro Verga che ospita lo spettacolo, incontriamo il regista
Vincenzo Pirrotta, che ci racconta il percorso che lo ha fatto approdare a Clitennestra.
Innanzitutto Clitennestra
chiude il cerchio con le mie Eumenidi di Eschilo (portate in scena alla
Biennale di Venezia nel 2004 con il testo tradotto in dialetto siciliano ndr) e poi perché attraverso una saga
familiare si può parlare di una molteplicità di temi, tutti universali come il
fato, il potere, il governo, il tradimento, il sangue, la vendetta.
Hai
parlato di azzardo riferendoti alla tuaClitennestra, cosa intendi?
E’ comunque un’opera di
rottura. Di fatto non m’interessava
l’azzardo per l’azzardo, piuttostoaffrontare un tema a cui non mi ero mai avvicinato
e cioè l’uomo che si sente Dio.
Come
mai fra le tante tematiche del testo poni l’accentosull’aspetto della
spiritualità?
Quando parlo di
spiritualità non mi riferisco nello specifico al rapporto col divino. La
spiritualità è fatta da tante cose: penso alla cultura, alla lettura dei libri,
a ciò che ci accresce lo spirito. In questo momento vedo poco interesse anche
da parte della scuola per il mito e c’è una mancanza di conoscenza della
società greca che poi costituisce le nostre radici. Ho dunque voluto mostrare
cosa potrebbe accadere in futuro continuando a non perseguire la conoscenza.
Il
coro nella tua tragedia è sintesi del teatro greco e del teatro poetico del
cuntu . Perché l’hai scritto in dialetto?
Ciò che dice il coro
è come se lo dicessi io entrando in scena in veste di narratore e siccome la
mia lingua madre è il dialetto ho optato per quello. Ecco perché l’ho
differenziato da Clitennestra che invece si esprime in italiano.
Come
definiresti il tuo teatro?
Premetto che non amo
le etichette, tuttavia il tentativo che faccio portando in scena i miei testi o
quelli degli altri, sui quali intervengo sempre, è quello di voler dare un
pugno allo stomaco degli spettatori. Non voglio farli stare tranquilli sulla
poltrona, sia che metta in scena una commedia oppure dei testi più filosofici
come in questo caso. Mi piace l’idea che il pubblico si senta sempre chiamato
in causa, deve sentire quella materia, quell’azione scenica come qualcosa di
vivo, pulsante, che gli è vicino. Il mio grande auspicio è quello d’insinuare
un tarlo che induca il pubblico a riflettere a lungo su quanto ha visto.
Il
tuo non è un teatro realistico, in che modo le scene di Renzo Milan e i costumi
di Giuseppina Maurizi seguono questo tuo stile?
I costumi e le scene
non vogliono descrivere una realtà fisica ma una realtà delle emozioni. Il muro
incrostato di Micene, illuminato in un certo modo, per esempio, dà il senso
della decomposizione della società di oggi, mentre i rami contorti dell’altare
esprimono la violenza e la ferocia delle Erinni e non sono altro, nella mia
proiezione mentale, che gli spuntoni dentro i quali ci dobbiamo districare per
non essere infilzati. Nell’ultimo quadro mi sono ispirato ad Andy Warhol e alla
pop art ma anche ai tarocchi (Oreste ad esempio è una Papessa) e in certi
momenti anche a Bacon. Ho cercato di costruire attorno a questa dimensione
effimera una sorta di mondo dove tutti hanno una seconda pelle, una maschera,
pur non essendoci maschere nello spettacolo. Per questo quando viene svelata la
loro condizione di esseri umani e dunque di non Dei, tutto crolla. I sacerdoti
sono personaggi che rimandano moltissimo ai quadri di Salvador Dalì, che io ho
voluto come figure simili a dame del Settecento ma avvolte nella plastica. Anche
Oreste ed Elettra ad un certo punto si spogliano di questa immagine effimera
mostrando la loro piccolezza. L’inginocchiamento di Oreste in proscenio, non
vuole essere un’ammissione di colpa davanti a tutti per essersi macchiato di ὕβϱις
“tracotanza”, ma è la dimostrazione
della perdita del consenso.
Nella
tua lunga carriera di attore, regista di prosa e lirica, di scrittore (di recente è uscito il tuo
romanzo Guasta Semenza)c’è una cosa che vorresti fare e ancora ti manca?
Non ho particolari
sogni nel cassetto ma ti posso dire in anteprima che sto preparando un film dal
titolo Prigioni prodotto da Fabbrica
Benetton che girerò a Treviso.
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