06 giugno, 2015

IL PRIGIONIERO. Racconto di Massimo Triolo


“…And I hold within my hand/Grains of the golden sand –/How few! Yet how they creep/Trough my fingers to the deep,/While I weep – While I weep!/O God! Can I not grasp/Them with a tighter clasp?/O God! Can I not save/One from the pitiless wave?/Is all that we see or seem/But a dream within a dream?/
E.A.POE,”A Dream within a Dream”


Francis Bacon, Urlo del Papa
Ho tirato su le imposte e spalancato la finestra. Fuori era ancora notte fonda. Un cane, da lontano, non smetteva il suo rauco latrato. Il cielo, punteggiato di gremite stelle, mi ha comunicato un’ineffabile fitta. Sono restato col groppo in gola a lasciarmi investire – gli occhi chiusi – dalla brezza fresca e vivace che muoveva un concerto di foglie fra rami invisibili. Un profonda angoscia si era insinuata nei miei vividi sogni – di cui ancora tenevo una labile traccia emotiva - e mi ero svegliato madido di sudore e con le lacrime in volto, ma senza poterli ricordare.
Adesso non si ode suono se non il ticchettio arcigno dell’orologio a muro. Mi sento in anticipo su tutto e tutti: un mondo addormentato che non mi bada – solo il canto precoce e sporadico di qualche passero, e il frusciare oceanico di nascoste fronde che danzano ondeggiando, da qualche parte nel fondale buio e indistinto di quest’ora antelucana. La mia mente si fa sgombra da ogni pensiero, ma qualcosa di inquieto e remoto trascina le sue catene nei recessi del mio intimo – sento inspessirsi un larvato senso di trepida tensione. Poi, d’improvviso, un’ondata di dense rievocazioni come fantasmagorie di fragranze e colori senza corpo. Cerco di non badare alla cosa, ma è un’inedita sensazione di disagio che non riesco a cacciar via del tutto. Attraverso torpidamente la sala e accendo la radio che occhieggia da un angolo segnando l’ora sul suo quadrante luminoso: le tre e mezza. Una voce in falsetto sta snocciolando grumi di parole trite con l’accompagnamento di un rock basico.
Bevo del caffè freddo, che non ricordavo essermi avanzato dalla sera prima, e il mio palato recalcitra al sapore denso e amaro della bevanda. La sensazione d’angoscia che avevano ingenerato i miei incubi, sta stemperando in una lieve ansietà, ma sento strisciarmi dentro qualcosa di alieno e inafferrabile che non trova pace – sento crescere uno strano mélange di sensazioni vaghe e contrastanti. Con un gesto istintivo e meccanico, faccio per accendere le luci, ma indugio un istante e decido infine che tenerle spente sia più confortevole. Nella penombra della casa, vecchi oggetti familiari cambiano di volto, suggerendo con le loro silhouette, bizzarre forme fantasiose. Da torrente, il tempo, sembra essersi trasformato in un rigagnolo. E’ come se la mia presenza si stesse assottigliando.
Adesso la radio scandisce grappoli di note carezzevoli da un pianoforte che indugia su un andamento lento e dilatato, poi il richiamo di un violino zoppicante emerge a latere di quel morbido fraseggio musicale, finché i due non si accordano in una perfetta e dialogante armonia, ed un tremulo di chitarra ne consolida l’unione salendo e scendendo ritmicamente di tono come ad evocarne l’incedere per mano. Improvvisamente ho la netta impressione di conoscere già l’intero brano… E in effettiriesco ad anticiparne l’andamento… pure, non ricordo come e dove l’abbia già udito. Una sensazione di freddo crescente prende ad avvolgermi nelle sue viscide spire. Il mattino sembra non dover più arrivare. I miei occhi, fattisi sensibili alla semioscurità, catturano parvenze di dettagli che paiono fuori posto rispetto all’insieme. Mi dico che è solo un gioco di ombre, ma l’inquietudine monta nuovamente in un senso di angoscia nera e irrefrenabile. Sento nuovamente l’impulso impellente di accendere tutte le luci. In un baleno, la casa si ricolma di una miriade di dettagli che offrono, per un istante, il sollievo di un piacevole senso di solidità… Niente di più labile, perché ogni mobilio, ogni singola suppellettile, muta in qualcosa che non mi è mai appartenuto. Il freddo cresce… cosa mi sta accadendo?...Un crescente terrore mi allappa la bocca, proiettando la mia testa all’indietro in un flusso senza coordinate. E’ un attacco di panico, ne riconosco i sintomi. Una flebile voce, mi sussurra da dentro che quella è la mia casa, quelli sono i miei oggetti, ed io sono al sicuro, ma non riesco a stornarmi dalla perdita di punti di riferimento…
Mi muovo per tutte le stanze alla  convulsa ricerca di qualcosa che parli la docile lingua di un oggetto addomesticato dall’uso nei giorni e negli anni, ma adesso tutto quanto mi è ancora più estraneo e scostante… Piccole e grandi foto-ricordo, sporgono volti ignoti dalle proprie irriconoscibili cornici. Un quadro, da sopra il camino, mi offre la sardonica beffa di un bucolico paesaggio agreste, con fiumi e colline che non ho mai veduto prima. Incespico turbato ed attonito come un insetto impazzito, fra inferni di nitidi particolari che sembrano congiurare contro la mia stessa esistenza. Con la mente stravolta e fluttuante in un pluriverso di scoordinati elementi, cerco di aggrapparmi ad un ricordo salvo dalla congiura che mi si è fatta d’attorno, ma non riesco a niente. E’ come se non avessi alcun passato: una spoglia presenza che si appercepisce senza alcun elemento mediato di coscienza o riflessione. Scopro con orrore di non avere un passato, un nome, un singolo vissuto che torni al pensiero salvandomi dall'’incubo. Il mio sguardo ciondola smarrito da una parte all’altra della stanza fino a incontrare nuovamente il quadrante dell’ora: segna ancora le tre e mezza esatte.
Un fischio assordante mi trafigge le orecchie, il volto avvampa, mi guardo le mani e sembrano spropositatamente grandi, mentre ogni parete pare ritrarsi lontano per poi tornarmi incontro in un’orribile vertigine altalenante, richiudendosi sulla mia evanescente presenza fino a schiacciarla. Poi, repentinamente, tutto ritorna nei cardini della normalità; come se qualcuno avesse acceso solo adesso le luci della realtà. E la casa intera mi offre un nitido dejà vù: io che torno a stare meglio, ed ogni dettaglio d’insieme che mostra il volto di una familiarità bastevole ma come mutila, di migliaia e migliaia di mattini eguali; il risveglio nel cuore della notte, le stelle e la frescura della brezza, il sapore del caffè nel palato, la radio che suona gli stessi brani già conosciuti, la perdita di coordinate… senza nessun sole che sorge e nessun principio di giornata, nella prigione di un rotto arco di tempo che viene dal vuoto e nel vuoto ricade per poi ripetersi identico. Ed io, infine, che torno nel letto sognando di potermi addormentare senza più svegliarmi, senza più dovermi ingannare e nuovamente vivere il tratto terrifico di quella monca esistenza priva di senso, che con la sua perenne ancora alla fonda non salpa verso alcuna aurora.
Adesso sento solo l’impulso di coricarmi e risprofondare nel sonno, per poter obliare tutto quanto. Mi trascino come un sonnambulo verso il letto, mi distendo e mi avvolgo nelle coperte. La sensazione di freddo scema con la crescente pesantezza del sonno che ritorna. Il mio ultimo pensiero è la speranza di dover dormire per sempre, e sempre, senza più svegliarmi. Il silenzio diviene una dolce melodia. Ora sono al sicuro: calmo e appagato; stavolta, ho come la certezza che andrà tutto bene…
…non devo fare altro che dormire e sognare per sempre di non dovermi risvegliare.

“Caro diario,
stamani mi sono alzato nuovamente tardi, proprio come un bruto. Questo ultimo mese è stato il peggiore in assoluto. Ogni volta mi sveglio con la sensazione di stare continuando un sogno, ma non riesco mai a trattenerne la minima traccia… se non forse una vaga voce, una voce di richiesta d’aiuto che sembra correre attraverso le pareti, per dileguarsi in un attimo. Poi tutto torna ad apparirmi con la sua tangibile e inespugnabile, ottusa presenza, che mi reclama alla vita. Sto abusando senza ritegno di alcol e psicofarmaci. Penso di star perdendo del tutto il controllo. Da quando ho saputo di avere i giorni contati, non riesco più ad applicarmi ad alcunché che mi salvi da questo lento assottigliarsi di ogni senso, con la sua inutile muta giornaliera di morte pelli.
Credevo che sarei riuscito, almeno, a completare il mio ultimo lavoro; ma sono ancora in alto mare: riesco solo ad accanirmi ossessivamente su uno stupido incipit che prima della ferale notizia sul decorso avanzato della mia malattia, avevo pensato potesse essere l’avvio della mia migliore e più ambiziosa opera. In effetti, sto solo annaspando in un labirinto di correzioni e riscritture, non riesco a scrivere con frutto… E non trovo pace. Continuo a cesellare morbosamente poche righe di avvio che vedono il protagonista risvegliarsi in un primo mattino di sonno spezzato… ottenendo soltanto di incagliarmi una volta di più, arrivato al medesimo punto.
Penso di stare perdendo la ragione. Oggi, forse, mi deciderò a prendere ogni singolo foglio, ammucchiarlo, e bruciare tutto quanto… Forse, così, ritroverò un po’ della tranquillità perduta…”

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