Roma, Teatro Kopò (Via
Vestricio Spurinna 47/49 – Metro A Numidio Quadrato) data unica 11 giugno 2015
Fare memoria, fare
comunità. Riuscire, attraverso le storie delle persone, a ricostruire quelle
radici che danno il senso dell’essere qui, ora, sottraendoci all’appiattimento
culturale, alla banalità impostaci dall’illusione mortifera di un falso
progresso. Lo dico subito: non sono d’accordo con chi definisce lo
spettacolo-non spettacolo di Simone Saccucci in scena per una sola serata
(purtroppo) al Teatro Kopo, una narrazione della periferia. Si, lui parte dai
ricordi di quelle che furono, nemmeno tanti anni fa, le zone in cui è
cresciuto, Guidonia e dintorni, ma gli si farebbe un torto, a mio parere, nel
confinarlo come un cantore “periferico”. Sarebbe come definire Marco Paolini un
narratore delle periferie venete o Ascanio Celestini un cantastorie di piccole
e grandi storie romane.
Saccucci, a suo modo (ognuno ha il suo modo) e con le debite proporzioni, ci porta nelle periferie dei cuori, dove sono sepolti dalla polvere i significati reconditi del nostro vivere in un determinato luogo. Ci porta nelle storie ricordandoci che senza storie non c’è vita. Come dice lui stesso, è alla ricerca di prove per amare il luogo in cui vive e, con un respiro che si apre al mondo intero, per amarci l’uno con l’altro. Le storie sue sono le nostre, di chi assiste in teatro o in una piazza. E lui ce lo ricorda in continuazione, scendendo tra gli spettatori che coinvolge con le sue canzoni strambe ma bellissime, ricche di vita, ricordo e dolore, ironia e speranza. Un’operazione, la sua, che come i ricordi lontani, quelli in una vecchia foto in bianco e nero magari, esce dalle tenebre dell’omologazione, come lui stesso all’inizio sul palco, per qualche minuto avvolto nel buio pesto, solo la voce a tenerci attenti, come attorno ad un focolare ad ascoltare il racconto di un nonno che non c’è più. E bisogna stare attenti alle storie, perché “quando arriva il futuro, il presente è già passato” e si può rimanere fregati se non si sa da dove si proviene. Roccespinestreghe è qualcosa di lontano dall’idea tradizionale di teatro, anche di quello cosiddetto sociale. E’ come un sussurro di un nostro lontano parente, una voce che ci mette in guardia, che ci fa del bene nello stesso momento in cui ci fa realizzare di essere in pericolo oblìo.
Saccucci, a suo modo (ognuno ha il suo modo) e con le debite proporzioni, ci porta nelle periferie dei cuori, dove sono sepolti dalla polvere i significati reconditi del nostro vivere in un determinato luogo. Ci porta nelle storie ricordandoci che senza storie non c’è vita. Come dice lui stesso, è alla ricerca di prove per amare il luogo in cui vive e, con un respiro che si apre al mondo intero, per amarci l’uno con l’altro. Le storie sue sono le nostre, di chi assiste in teatro o in una piazza. E lui ce lo ricorda in continuazione, scendendo tra gli spettatori che coinvolge con le sue canzoni strambe ma bellissime, ricche di vita, ricordo e dolore, ironia e speranza. Un’operazione, la sua, che come i ricordi lontani, quelli in una vecchia foto in bianco e nero magari, esce dalle tenebre dell’omologazione, come lui stesso all’inizio sul palco, per qualche minuto avvolto nel buio pesto, solo la voce a tenerci attenti, come attorno ad un focolare ad ascoltare il racconto di un nonno che non c’è più. E bisogna stare attenti alle storie, perché “quando arriva il futuro, il presente è già passato” e si può rimanere fregati se non si sa da dove si proviene. Roccespinestreghe è qualcosa di lontano dall’idea tradizionale di teatro, anche di quello cosiddetto sociale. E’ come un sussurro di un nostro lontano parente, una voce che ci mette in guardia, che ci fa del bene nello stesso momento in cui ci fa realizzare di essere in pericolo oblìo.
Con i racconti di vita e con la chitarra, Simone crea una
parentesi nelle nostre frenetiche giornate, lasciandoci dentro un retrogusto
dolceamaro che continua a farsi sentire nei giorni seguenti. Il recital di Saccucci è un balsamo
rigenerante, che ci fa riscoprire i valori su cui poggiano le nostre radici.
Le rocce, le spine e le streghe sono dappertutto, fanno parte di noi, non
dobbiamo eliminarle, ma avere l’accortezza di saperci vivere insieme. Da
vedere.
Primo appuntamento
della rassegna estiva del Teatro Kopo, che prosegue fino al 19 luglio. Per
info, date e orari: www.teatrokopo.it
(aperitivo e spettacolo 10 €)
Paolo
Leone
Roccespinestreghe, di e con
Simone Saccucci
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