Teatro Franco Parenti, Milano. Dal 27
novembre al 13 dicembre 2015
“E vissero infelici e scontenti per trenta e più anni,
finché venne la morte a dividerli definitivamente”
Basterebbero queste parole per definire il testo del
drammaturgo israeliano Hanoch Levin, uno sguardo spietato e reale
sull’istituzione del matrimonio, sui rapporti di coppia, sulla vita, quando sta
per finire, ma in realtà finita da tempo, forse già dopo la prima notte.
Yona e Leviva sono lo specchio di tutti i matrimoni,
anche quelli che apparentemente appaiono i più felici, ricettacoli di menzogne,
ipocrisie, un gioco dove nessuno si diverte più e dove le parole “noia”,
“soffocamento”, “mancanza di desiderio”, “odio”, “insofferenza”, “paura”,
“nausea” sono proiettili che feriscono violentemente, irrimediabilmente,
rimbalzando tra le pareti di una stanza dove il letto è solo un giaciglio per
corpi avvizziti che non si toccano più da anni, che a stento si sopportano, e
che stanno insieme soltanto per paura. La paura di morire soli.
La scena è una camera da letto dove Leviva dorme, forse
sogna? non sente, o fa finta di non
sentire? Yona che si lamenta del dolore che gli ha attanagliato il petto, un
presagio funesto nel cuore della notte, quando il sonno è come “piccole schegge
di morte” come scrive Poe. E così comincia la sua invettiva solitaria e
inascoltata verso la moglie che gli sta accanto, “un culo come una palla al
piede”, “un pezzo di carne rinsecchita” da cui vorrebbe allontanarsi, ma chissà
quante volte l’ha pensato e minacciato in quei trent’anni, senza averne mai
avuto il coraggio. Per paura è rimasto a casa, in fondo solo “per amareggiarle
la vita”.
E poi stanco di
abbaiare alla luna, quale luna? rovescia
il materasso per terra, svegliando la moglie. Lei ha una reazione blanda, forse
è il sonno che la rende così apatica o forse, anzi sicuramente, è per via della
sua debole, insignificante personalità, di quello spirito di sacrificio nei
confronti degli uomini che hanno spesso le donne e che le rende così poco
attraenti. Una donna che rinfaccia al marito “di avergli dedicato trent’anni
della sua vita”, mai sentite queste parole? Mai pronunciate? Magari invece di
trenta sono quaranta, o venti, o cinque, che importa? E’ che il matrimonio è un
rituale obsoleto, ipocrita, dove esseri soli si uniscono senza sapere che
saranno ancora più soli.
Lui è rabbioso, comincia a vestirsi, ma il pigiama rimane
sotto l’abito, e le scarpe sono già ai piedi del letto, invece delle pantofole,
per essere pronto “a prendere il largo” in qualsiasi momento. Fa la valigia, e continua a rinfacciarle
tutto quello che ha tenuto dentro per trent’anni, o forse è un’ennesima
invettiva che non ha avuto mai seguito perché lei ha minacciato il suicidio,
chissà quante volte. Come si può vivere così? In nome di cosa?
Com’è crudele ogni parola di Levin, anche se ogni tanto
ci scappa un sorriso, una risata amara, tuttavia, davanti a quello che prima o
poi tutti diventeremo. Non c’è scampo alla vita di coppia. Come non c’è scampo
alla vita, in generale.
Nemmeno i sogni sono rispettati, quel resto di privacy
dove possiamo rimanere soli, con i nostri desideri, voglie, illusioni, perché
Yona pretende di sapere cosa Leviva sta sognando, insinuando la sua infedeltà,
perfino nello stato incosciente del sonno. Lei cerca di difendersi, con il
pianto, come fanno le donne, e che fa tanto irritare gli uomini. Ma lei sognava
soltanto di comprarsi un cappello per l’estate, non di tradirlo. Sarà vero? Le
donne sanno mentire bene, per difendersi dalla violenza maschile.
Tenendo la valigia in mano, si avvicina continuamente
alla porta, ma poi torna indietro, ci ripensa, trova altre parole per ferire,
non ha il coraggio di uscire e alla fine rimane lì come “un pesce morto”, senza
decidersi. Poi un bussare alla porta. E’
il vicino di casa che chiede un’aspirina, ha visto la luce accesa, ha forse
sentito l’ennesimo litigio. Si insinua nella loro discussione come un serpente,
ha capito tutto della coppia, li smaschera per bene e loro, per difendere la
propria immagine, borghese, si alleano contro quell’individuo che rappresenta
tristemente quello cui andrebbero incontro se si lasciassero: morire in
completa solitudine. Non c’è un happy ending, perché è la vita stessa
che non ce l’ha, eppure non tutte le coppie sono così, c’è chi ha il coraggio
di dire basta, di rompere situazioni di stallo, di pena, di angoscia, di
falsità. E di ricominciare, più consapevoli, più dignitosi. Ma la maggior parte
sopravvive, inerme, è il trionfo dell’“amore bugiardo” e poi vanno a teatro a
vedersi rappresentati, ridendo di se stessi. E poi usciranno mano nella mano,
pensando che a loro non capiterà mai, una cosa del genere.
Uno spettacolo che fa male, molto male. Andrée
Ruth Shammah e Carlo Cecchi lo sanno bene ma nonostante questo hanno avuto il coraggio di portarlo
in scena, senza paura di rimanere soli, consapevoli che l’arte ha la capacità
di farci pensare, indagare, scavare nelle nostre esistenze, aiutandoci, ci
auguriamo, a rendere meno penoso il “lavoro di vivere”, che non lascia mai
nessuno disoccupato.
Daria D.
“Il lavoro di vivere”
di Hanoch Levin
uno
spettacolo di Andrée Ruth Shammah ripreso
da Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto
collaborazione alle scene Gian Maurizio Fercioni
collaborazione alle luci Gigi Saccomandi
costumi Simona Dondoni
musiche Michele Tadini
con Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto
collaborazione alle scene Gian Maurizio Fercioni
collaborazione alle luci Gigi Saccomandi
costumi Simona Dondoni
musiche Michele Tadini
Produzione
Teatro Franco Parenti
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