Cinema Nuovo Pendola, Siena. Lunedì 30
novembre 2015
Yasujiro Ozu (1903-1963) è stato, al pari di
Akira Kurosawa e Kenji Mizoguchi, una delle figure-chiave per la rinascita del
cinema giapponese nel secondo dopoguerra e per la successiva affermazione della
“scuola nipponica” su scala mondiale. Stiamo parlando di uno dei più importanti
registi di tutti i tempi, un vero e proprio gigante del cinema, capace di lasciare
un segno indelebile nel mondo della settima arte grazie ad uno stile unico e
inconfondibile, e grazie, soprattutto, a una serie di grandi film da riscoprire
e ricordare. Assai opportuna, quindi, e irrinunciabile per tutti i cinefili
all’ascolto, la rassegna “Ozu Yasujiro- I sei capolavori restaurati”
organizzata da Tucker Film, che prevede la riproposizione al cinema di sei
opere fondamentali del Maestro, tutte restaurate digitalmente e presentate in
versione originale con sottotitoli; al progetto hanno aderito vari cinema d’essai in tutta Italia (per
informazioni www.ozutuckerfilm.com),
tra cui il suggestivo e caratteristico Nuovo Pendola di Siena. Un’occasione
davvero unica per conoscere nel modo più opportuno (cioè attraverso il grande
schermo) l’opera –da noi, purtroppo, poco conosciuta- del grande Ozu.
Molto lontano sia dall’umanesimo epico e
letterario di Kurosawa che dal doloroso “esistenzialismo in costume” (per
semplificare) di Mizoguchi, Ozu si è distinto come acuto e critico osservatore
dei rapidi mutamenti sociali della società giapponese del dopoguerra,
entusiasticamente e spasmodicamente protesa verso il progresso dopo secoli d’immobilismo,
ma anche troppo rapidamente incline ad accantonare i propri plurisecolari
valori tradizionali. Il precario equilibrio fra tradizione e modernità, la
progressiva urbanizzazione, industrializzazione e occidentalizzazione del
Paese, l’incomunicabilità tra le generazioni, i difficili rapporti tra campagna
e città, tra genitori (il passato) e figli (il presente e il futuro), lo
scorrere inesorabile del tempo e il fluire delle cose sono i temi ricorrenti
che caratterizzano l’opera di Ozu. Esemplare e unico anche lo stile (sia narrativo
che figurativo), le cui parole d’ordine sono: semplicità, trasparenza, pudore,
rigore e contemplazione (tra i cineasti europei, forse solo Bresson è
paragonabile a Ozu). I film di Ozu raccontano la vita umana così com’è, e
mirano all’essenza delle cose con lucida e limpida immediatezza.
Già autore di opere importanti negli anni
venti –con i suoi primi film muti- e trenta, a partire dalla fine degli anni
quaranta fino alla prematura scomparsa Ozu raggiunge l’apice con una serie di
capolavori che gli sono valsi, di diritto, un posto tra i più grandi di sempre
del cinema. Ricordo i titoli più importanti, peraltro tutti inseriti nella
retrospettiva di cui sopra: Tarda
Primavera, Viaggio a Tokyo, Fiori d’equinozio, Tardo autunno e Il gusto del
sakè. Gli ultimi film (da inizio anni cinquanta in poi), oltre a presentare
i tipici nuclei tematici del Maestro, ne fissano anche il linguaggio tecnico (caratterizzato
invece da una maggior varietà nei primi anni di carriera) e per questo sono
riconoscibilissimi: camera posizionata all’altezza dei personaggi seduti, inquadrature
fisse e prevalentemente dedicate agli ambienti interni (mostrati a volte vuoti,
senza i personaggi), pressoché totale assenza di movimenti di macchina, campi e
controcampi alternati, ritmo lento e serafico, recitazione misurata e “in punta
di piedi” degli attori. Ultima cosa: in ogni film di Ozu c’è almeno
un’inquadratura di un treno che passa.
Viaggio
a Tokyo (1953)
è a mio giudizio, insieme a Tarda
primavera (1949), il miglior film di Ozu e la sintesi perfetta della sua
arte. Il film racconta le disavventure di due anziani genitori (il padre è
interpretato da Chishu Ryu, forse l’attore preferito e più impiegato da Ozu)
che partono dal paesino di Onomichi per andare a trovare due dei loro figli a
Tokyo. Dopo un’accoglienza iniziale calorosa, né il figlio Koichi, medico, né
la figlia Shige, parrucchiera, sembrano aver tempo da dedicare ai genitori, che
anzi giudicano un intralcio per il loro lavoro e trattano con freddezza e
malcelata sopportazione, facendoli sentire quasi degli estranei. L’unica a
dimostrare affetto e gentilezza nei confronti degli ospiti è la premurosa nuora
Noriko (interpretata da Setsuko Hara, altra attrice molto amata da Ozu), vedova
di un figlio disperso durante la guerra. Dopo essere stati “parcheggiati” in villeggiatura
alle terme di Atami, i due anziani, sentendosi di troppo, decidono di togliere
il disturbo. Durante il viaggio in treno, però, la mamma si ammala gravemente
e, poco dopo il ritorno a casa, muore. A causa dell’improvviso lutto la
famiglia si ritrova finalmente riunita, ma solo per il funerale: a cerimonia
finita tutti tornano alle proprie vite, e al vecchio padre non resta che prepararsi
quietamente a trascorrere il tempo che gli resta in solitudine.
In Viaggio
a Tokyo sono presenti tutti i dualismi della poetica di Ozu
(confronto/scontro tra generazioni, vita rurale/vita in città,
tradizione/modernità…), espressi con la consueta essenzialità e con un pudore
estremo che, probabilmente, è prerogativa esclusiva della cultura giapponese.
L’estrema compostezza e misura di espressioni, linguaggio corporeo e gesti
degli attori (tutti bravissimi, perfetti nel cogliere in pieno lo spirito del
regista) sembra provenire, più che da un'altra cultura, da un altro pianeta, ed
è inevitabile, per noi spettatori “occidentali”, rimanerne stupiti e
affascinati.
Se, da un lato, il giudizio del regista sulla
società giapponese moderna, una società che sta perdendo la propria identità e
i propri punti di riferimento (su tutti l’unità familiare) appare chiaramente
negativo, dall’altro lato si percepisce una stoica rassegnazione verso la
logica e le dinamiche del progresso; superato il disorientamento e la delusione
iniziali per il trattamento ricevuto, i due anziani genitori riescono a
comprendere, fino a giustificare, l’egoismo dei figli valutando le circostanze
che l’hanno prodotto: il lavoro, il desiderio di ritagliarsi un posto di
rilievo in una società sempre più competitiva, una famiglia cui pensare… Tutto
ciò rientra in una filosofia di vita incline alla “serena accettazione
dell’ineluttabile” che probabilmente rappresenta, di nuovo, una caratteristica tipicamente giapponese.
Se valutato con i canoni estetici odierni, e
confrontato con la società del nostro presente, Viaggio a Tokyo -e tutto il cinema di Ozu con esso- può apparire
pesantemente datato, ma utilizzare questo tipo di approccio sarebbe sbagliato:
il film va invece considerato come un prezioso documento sociologico,
un’istantanea d’epoca di un Paese lanciato a folle velocità verso la scalata
(economica) del mondo, con tutto quel che poi ne è conseguito…
Ultimo appuntamento con il cinema di Ozu al
Nuovo Pendola di Siena il prossimo 18 gennaio 2016, con un altro capolavoro: Tarda primavera. Da non perdere!
Francesco
Vignaroli
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