Teatro La Fenice, Venezia.
Fino all’11 febbraio 2016
Ogni
volta che rivedo La Traviata di Robert Carsen, proposta ormai a ogni
stagione dal Teatro La Fenice, ne scopro dettagli prima ignorati e mi concentro
sugli interpreti del momento. L’orizzontalità pervade le monumentali scene di Patrick Kinmonth, impostate su diverse tonalità di
verde, ed è evidenziata anche dalla scelta di disporre le masse corali sempre a
ridosso della ribalta. Ho notato maggior erotismo nel balletto che accompagna
il coro di gitane e matadores, attualizzati
in cowgirls perizomate e cowboys in chaps, coerente con la riflessione sul corpo e merce portata avanti
da Carsen. L’incontro tra Violetta e Germont avviene in una foresta ove
le banconote volteggiano nell’aria come effimere farfalle sino a scendere
copiose mentre il lancinante Amami, Alfredo
strazia il cuore delle anime sensibili.
Infatti, rammenta Carsen, è il denaro a cementare l’azione, sia esso ricavato per mantenere Alfredo, compenso per prestazioni sessuali, onorario medico dell’ultima visita alla poveretta, spirante nella stanza 1206 oramai disadorna. Solo una televisione rotta, simbolo d’una bellezza ormai spenta, apre la sempre attuale riflessione sulla riproducibilità dell’immagine, quanto le fotografie prodotte dall’Alfredo reporter. Il light design, curato dallo stesso regista e da Peter Van Praet, ammanta le atmosfere di luci via via più cupe e confondenti, in un progressivo mancar di forze.
Infatti, rammenta Carsen, è il denaro a cementare l’azione, sia esso ricavato per mantenere Alfredo, compenso per prestazioni sessuali, onorario medico dell’ultima visita alla poveretta, spirante nella stanza 1206 oramai disadorna. Solo una televisione rotta, simbolo d’una bellezza ormai spenta, apre la sempre attuale riflessione sulla riproducibilità dell’immagine, quanto le fotografie prodotte dall’Alfredo reporter. Il light design, curato dallo stesso regista e da Peter Van Praet, ammanta le atmosfere di luci via via più cupe e confondenti, in un progressivo mancar di forze.
Daniele Rustioni dirige
l’orchestra veneziana, omogenea e compatta, restituendo una lettura originale e
fuori dagli schemi. Rustioni, infatti, ripulisce Verdi di quell’effetto rustico
che sovente si sente con altre direzioni: il ritmo ternario è alleggerito a
favore di una ritrovata drammaticità sinfonica, fatta di respiri ampi, ma ben
controllati; lancia i timpani a briglia sciolta in Amami, Alfredo e nel finale terzo, descrivendo ottimamente
l’estremo sisma emotivo di Violetta e le tragiche conseguenze; esalta l’oboe, ricordandoci
quanto nel Barocco fosse strumento obbligato di molte arie, nel finale secondo
e nell’Addio del passato, ove gli
archi addirittura echeggiano impercettibili. Sceglie inoltre tempi pertinenti,
imprime un’ottima incisività nelle scene d’assieme e mantiene elevata la
qualità musicale, persino durante le feste cortigiane, la banda fuori scena è
per la prima volta nitida e ben udibile.
Francesca Dotto,
giovane soprano trevigiano, dimostra di aver studiato e approfondito ancor di
più il ruolo rispetto all’ultima volta in cui la sentii. La sua Violetta,
grazie all’ottimo fraseggio, l’uso consapevole delle dinamiche e il magistrale controllo
dell’acuto, è una delle interpretazioni migliori di oggi. Bellissimi i piani di
Dite alla giovine, l’Addio del passato e lo sdegno dei vari
momenti di rabbia contro il destino crudele. Man mano che la tragicità degli
eventi prende piede, la voce disvela l’autentica predisposizione al melodramma,
facendosi importante, pastosa e ricca di colori sempre diversi, adatti a
ritrarre una donna veramente tormentata dal male fisico e sociale. Col tempo e
ulteriore dedizione, Dotto potrà arricchire il personaggio con tutta quella
serie di agilità ed espedienti che renderanno ancor più preziosa la sua
interpretazione.
Mattia Lippi possiede
voce interessante, intonata e dai bei colori, seppur riveli tracce di nasalità
nella salita all’acuto. Alfredo narcisista il suo, più interessato a se stesso
che all’amata, ma nel complesso credibile. Non lo è invece Elia Fabbian, Germont spaesato, giocato tutto sull’acuto stentoreo.
Inamidato nel completo grigio, il baritono accenna movimenti minimi e svogliati
che non restituiscono appieno il personaggio. Bene si disimpegnano Armando Gabba (Douphol), William Corrò (d’Obigny) e Mattia Denti (Grenvil). Afona la Flora
di Elisabetta Martorana. Meno sfiatata
del solito l’Annina di Sabrina Vianello,
mentre rimane dimenticabile Gastone quello di Iorio Zennaro.
Di
rilievo la prestazione del Coro, più convincente rispetto a occasioni passate.
Applausi
convinti per tutti alla recita del 7 febbraio, in primis per Dotto che esce a raccogliere gli onori al termine del
terzo atto, riprendendoseli di nuovo alla fine della passerella. Consensi calorosi
pure per Rustioni, Lippi e Fabbian.
Luca Benvenuti
La Traviata
Melodramma
in tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma La Dame aux camélias di Alexandre Dumas
figlio.
Personaggi
e interpreti (primo cast):
Violetta
Valéry: Francesca
Dotto
Alfredo Germont: Matteo Lippi Giorgio Germont: Elia Fabbian Flora Bervoix: Elisabetta Martorana Annina: Sabrina Vianello Gastone: Iorio Zennaro
Il barone
Douphol: Armando
Gabba
Il dottor Grenvil: Mattia
Denti
Il marchese d’Obigny: William Corrò |
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Maestro concertatore e direttore: Daniele Rustioni
Regia: Robert Carsen Scene e costumi: Patrick Kinmonth
Light designer: Robert
Carsen e Peter Van Praet
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice Maestro del Coro: Claudio Marino Moretti
Allestimento
Teatro La Fenice
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